Ennis e Kripke chiamano i Boys: la realtà fatta a brandelli

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rima dell’approdo dello show di Eric Kripke su Amazon Prime Video tutto quello che sapevamo di The Boys si limitava al fumetto di Garth Ennis. La serie, pubblicata in origine dalla DC e poi passata alla Dynamite, era un cazzotto in piena faccia a tutto ciò che il business dei supereroi rappresentava. I soldi, i film, il merchandise. E tutto questo nel 2006, ben prima che l’ambizioso progetto del Marvel Cinematic Universe e i vari tentativi della DC di emularlo trasformassero i super nell’affare cinematografico del decennio. Ennis, in un certo senso, aveva superato i suoi maestri: non si era limitato a concepire lo spirito del tempo, lo aveva anticipato.

Ma, soprattutto, aveva impresso nel suo fumetto un messaggio unico, qualcosa che nessuno aveva mai colto nei supereroi. Un lato oscuro che, lungi dall’avere qualcosa a che fare con le panzane di Fredric Wertham, era da sempre stato nascosto in bella vista. Un messaggio che, letto dalla persona sbagliata, poteva diventare disastroso. Ennis lo aveva messo sotto i riflettori e, per farlo, aveva deformato gli eroi più amati del mondo DC e Marvel Comics, facendoli diventare portavoce di alcune delle peggiori storture di questo stato di cose.

Di cosa stiamo parlando? Dell’umanità, della realtà. Della vita di tutti i giorni. Perché se c’è qualcosa di crudele come poche altre al mondo, quella è la nostra quotidianità, una realtà che si costituisce di piccoli e grandi problemi, capaci di sommarsi uno alla volta e diventare l’inferno. Quello che, come direbbe Italo Calvino, è “l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”. Per capire al meglio questo messaggio dobbiamo però addentrarci nel mondo dei Boys. Quello cartaceo del fumetto e quello di celluloide della serie televisiva. Prendetevi una bella scorta di Composto V, perché questo viaggio sarà fatto di lacrime, sudore, sangue e ossa rotte. Molto sangue. E molte ossa rotte.

Perché The Boys è questo: che sia il fumetto di Ennis o la serie di Kripke, quando la realtà incontra Billy Butcher e i suoi ne esce a brandelli. Come la nostra illusione che, nei momenti peggiori, un supereroe venga a salvarci.

Serve un eroe?

Facciamo un salto indietro ai primi anni 2000. Il mondo è stato sconvolto dagli eventi dell’11 settembre e si è trovato in guerra contro un nemico invisibile, il terrorismo. Non si può certo dire che fosse un avversario nuovo. Il terrore serpeggiava nelle vite delle democrazie occidentali da secoli e che, nel corso della Guerra Fredda, aveva avuto alcuni picchi di orrore (in Italia ne siamo fin troppo consapevoli). Ma l’escalation a cui assistemmo in quel periodo, dove città come New York, Madrid e Londra subirono attentati di vasta portata, fu qualcosa con pochi precedenti.

A dare ‘una mano’ in questa situazione contribuirono i mass media, che non esitarono a cavalcare l’onda della paura, fornendo fotografie spesso allarmistiche della situazione. Il risultato fu che la gente, negli Stati Uniti come nel resto del mondo, iniziò a diffidare dei propri concittadini e sentirsi oppressa da quanto stava succedendo. Chiunque poteva essere un terrorista ma, proprio per questo, pochi potevano essere gli eroi. I cittadini del mondo occidentale, come poche volte era successo nella loro storia, si trovarono a desiderare che qualcuno li salvasse. Poco importava che fosse un governo, l’esercito o l’uomo della strada che si sarebbe immolato per gli altri. Serviva un eroe. Un sentimento che poteva essere umano, ma anche inquietante, se visto sotto la giusta prospettiva. Non era forse stata proprio la necessità una “eroina” per tedeschi e italiani ad aprire il campo ai fascismi?

A mettere su carta questo sentimento di paura e questa necessità di salvezza quasi messianica, ci pensò Garth Ennis. Il fumettista nord-irlandese era reduce dal successo di Preacher, fumetto nel quale si condensavano alcune delle piccole e grandi manie religiose tipiche degli States. Grazie alla sua visione esterna, Ennis aveva fotografato in maniera imparziale e crudele la religiosità di una nazione come gli Stati Uniti. Preacher era stato un successo e gli aveva permesso di lavorare a grandi nomi di Marvel e DC, come Punisher e Superman. Ma, anche ispirato dal periodo storico, Ennis era pronto a fare il passo successivo. Un fumetto che avrebbe “superato Preacher in preachitudine“. Nel suo nuovo lavoro avrebbe alzato la posta in palio e si sarebbe servito proprio dei supereroi per farlo.

Salvarci da cosa?

Il primo pensiero di Ennis, nel momento in cui iniziò a scrivere il suo fumetto, fu probabilmente chiedersi: dove nasce l’esigenza di avere un eroe? Il mito, la letteratura, il folklore e la storia sono pieni di figure leggendarie. Da Achille a Miyamoto Musashi, ogni popolo e periodo ha avuto la necessità di un eroe che ne descrivesse i valori e le necessità. Ogni super concepito nei comic, risponde a una ragione storica. Superman e Captain America erano più che umani proprio per la cocente delusione che la razza umana aveva dato a se stessa nel corso dei primi decenni del Secolo XX, permettendo una Guerra Mondiale e l’ascesa dei totalitarismi. Potremmo quindi dire che il “supereroismo” sia nato cercando di identificare la paura peggiore del periodo storico, per poi trasporne su carta l’antitesi. La necessità degli eroi sembra essere quella di salvare gli esseri umani dalla loro stessa umanità.

Gli anni Sessanta proposero un cambiamento radicale a questa idea di salvezza, quando la Marvel diede al pubblico Spider-Man e Doctor Strange. I personaggi di Steve Ditko avevano il merito di focalizzarsi su problemi nuovi. Strange sembrava dirci che l’orrore più grande da cui scappare fosse il materialismo. Spidey ci ricordava che anche la normalità, come l’avere cura di una parente vecchia, sola e ammalata, potesse nascondere l’eroismo. La salvezza, per Peter Parker, era rifuggire l’eccesso che la società americana degli anni Sessanta imponeva. Quello per cui le persone erano costrette a essere vincenti a tutti i costi. Ecco quindi che, il più popolare degli eroi, diventava un ragazzino nerd. Era l’ennesimo tentativo (in realtà molto riuscito) di salvarci da un certo tipo di umanità.

Ma cosa succede se portiamo questa negazione dell’umanità all’eccesso? Dal punto di vista religioso Ennis aveva già risposto a questa domanda con Preacher. Da un punto di vista laico e politico, l’autore trovò la risposta nel 2006 in un gruppo eterogeneo di agenti governativi. Un inglese con la voce di Michael Caine. Una giapponese silenziosa e letale. Un francese pazzo. Un ragazzone di Harlem. E, per finire, un giovane e innocente ragazzo delle Highlands. Erano nati i Boys. E per i super iniziavano i guai.

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Super di m*rda e dove trovarli

The Boys ci mostrava quali eroi sarebbero stati il prodotto della società dei primi anni 2000. Patriota, Queen Maeve, Abisso e gli altri erano lo specchio di un mondo corrotto, decadente, dove governava una nuova forma di “legge del più forte”. Se a qualche purista di fumetti dei supereroi può sembrare troppo quanto mostrato da Ennis (poi magistralmente ripreso da Kripke), sulle pagine di The Boys non c’era altro che la naturale evoluzione della ricerca di esseri sovra-umani destinati a salvare i lettori dalla loro umanità. Questa volta i valori rinnegati però erano gli stessi che la popolazione mondiale, di fronte alla crescente paura del diverso, aveva rinnegato. Erano i lati migliori dell’umanità. Quelli di empatia, concordia, fiducia, pietà e saggezza. Gli eroi di Ennis non sarebbero stati super-umani: sarebbero stati disumani.

Gli eroi di The Boys non sono altro che questo: privilegiati che, nel corso della loro vita, hanno avuto tutto. Al punto di sentirsi superiori ai comuni esseri umani. Da un lato essi rappresentano proprio la negazione dell’umanità portata all’eccesso, dall’altro non sono altro che lo specchio di una società dove, per dirla con le parole dello stesso Billy Butcher, “ci viene detto che è giusto lasciare indietro gli altri“. Gli eroi di The Boys sono un capitalismo sfrenato, l’eccesso sibaritico di una classe agiata che non pensa alle conseguenze delle proprie azioni. La storia di Hugh Campbell inizia con il giovane scozzese costretto a subire un lutto atroce a causa dell’insensibilità di un super. Robin, la ragazza che Ennis uccide all’inizio del suo nuovo fumetto, non è una semplice donna del frigo: è vittima di un sistema corrotto, dove a poche persone è concesso spadroneggiare sul resto della popolazione.

Certo, esistono eccezioni come la dolce Starlight e gli innocenti Super-Duper. Ma la maggior parte degli eroi altro non sono che menefreghisti, troppo stupidi per capire quanto i loro poteri, lasciati fuori controllo, possano essere dannosi. Ed è lì che intervengono i Boys. Il gruppo originariamente assemblato dal Colonnello Mallory è concepito per dare un messaggio: le conseguenze esistono. Butcher e il suo gruppo, in un certo senso, rappresentano gli anti-corpi di un sistema malato. Spetta a loro il compito di punire la disumanità dei super, riportandoli alla normalità. La stessa che viviamo noi, la stessa che vige nelle leggi di natura e che ci ricorda come a ogni azione corrisponda una reazione.

Ed è forse questo uno dei motivi per cui la lettura di The Boys ci risulta così appagante. Quante volte avremmo voluto rendere la pariglia ai privilegiati, all’1% che compromette la vita al restante 99% del pianeta? La legge e gli imperativi morali, giustamente, ci fermano da queste azioni. Ma le gesta dei Boys non sono finalizzate unicamente alla loro violenza. Il vero fulcro è proprio ricordare a semidivinità come i G-Men e i Teenage Kix la loro umanità. Costringerli a tornare coi piedi per terra. Se poi (nel fumetto e solo nel fumetto) questo viene fatto con una bella dose di splatter, tanto meglio.

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Un mondo diabolico

Quando Eric Kripke prese le redini di The Boys sapevamo che la serie televisiva sarebbe stata diversa rispetto al fumetto di Ennis. Erano passati tredici anni da quando la DC aveva pubblicato su Wildstorm (pentendosene!) il fumetto. Il mondo era cambiato. Nel mentre i supereroi erano tornati a godere di una popolarità che non sperimentavano dagli anni Settanta, grazie alle pellicole del Marvel Cinematic Universe e ai successi del Batman di Christopher Nolan. I super erano diventati l’affare del secolo e a loro spettava, molto spesso, di veicolare e diffondere messaggi alla popolazione.

Kripke si è trovato così a parlare a un pubblico molto diverso. Non più la nicchia del fumetto, ma la grande massa, quella degli abbonati ad Amazon Prime Video che, molto probabilmente, avevano anche visto uno o più cinecomic nel corso della propria vita. Proprio a queste persone si sarebbe rivolta la nuova versione del fumetto di Ennis: e Kripke è riuscito (magistralmente) a mettere in scena la nostra contemporaneità con l’aiuto dei Boys.

Il nuovo mondo in cui si muove il Billy Butcher di Karl Urban è un mondo composto non solo da fumetti e festival religiosi. Al suo interno trovano spazio i social media, le serate mondane a base di manifestazioni sportive e prime cinematografiche. I supereroi della Vought sono del tutto inseriti nel tessuto di questi anni. Si fanno selfie con le persone, badano alle pubbliche relazioni e sono una parte importante della cultura di massa. Eppure questo non cambia il messaggio di fondo: dietro la facciata imbiancata il sepolcro è sempre lo stesso.

I super di Kripke non sono meno disumani di quelli di Ennis. Anzi, sotto certi punti di vista, desiderosi come sono di essere delle dive, sono anche peggio. Il loro scopo è quello di scalare le classifiche di popolarità, protetti da una cappa di omertà che previene ogni possibile ripercussione. Se vogliamo il messaggio di Kripke è ancora più traumatico di quello di Ennis: semplicemente perché i Boys, per ben due stagioni, devono convivere con il fatto di essere loro il nemico della società, mentre Patriota e i Sette si preparano al proprio trionfo personale, entrando nei ranghi dell’esercito con il sostegno della popolazione.

Ancora una volta, l’esistenza dei super è una questione di salvezza. Un tentativo, da parte della popolazione, di delegare ad altri compiti troppo gravosi, ai quali non si desidera trovare soluzioni complesse e meno discutibili. Meglio sperare che sia un tizio in calzamaglia col mantello a stelle e strisce a risolvere la situazione. Meglio banalizzare questioni come parità di genere, diritti civili e diffusione delle armi, lasciando che sia la Vought American a pensare al problema al posto nostro.

Federico Galdi
Genovese, classe 1988. Laureato in Scienze Storiche, Archivistiche e Librarie, Federico dedica la maggior parte del suo tempo a leggere cose che vanno dal fantastico estremo all'intellettuale frustrato. Autore di quattro romanzi scritti mentre cercava di diventare docente di storia, al momento è il primo nella lista di quelli da mettere al muro quando arriverà la rivoluzione letteraria e il fantasy verrà (giustamente) bandito.