Per raccontare di isolamento, lockdown e di vita nell’era pandemica non basta osservare la realtà: bisogna anche saperlo fare

Nel momento esatto in cui si è diffusa in modo capillare la pandemia da Sars COV-2 si è creata una seconda malattia, conseguenza inevitabile della prima e sintomo di una necessità più o meno globalizzata. Mi riferisco al diffondersi di contenuti, storie, racconti o semplici testimonianze di come ci si sentiva, di quel che si vede e si faceva durante uno dei tanti lockdown occorsi nei mesi precedenti. Un contagio nel contagio, come se chiunque (compreso chi vi sta scrivendo) avesse il dovere di aggiornare e aggiornarsi circa quel che stava provando stando rinchiusa o rinchiuso in casa, sviscerando flussi di pensieri e riversandoli in contenuto. Un dato che deve farci interrogare anche sulla – già presente in precedenza ma esponenzialmente cresciuta per via degli avvenimenti – nostra dipendenza dal creare, testimoniare e dall’altro lato della barricata immergersi e consumare le storie altrui: una necessità che ovviamente il fatto di non potersi vedere di persona e scambiarsi in quel momento stati d’animo e storie ha reso ancora più impellente. Potrei citare centinaia di cose che parlano di questo tema, perché la produzione è davvero sconfinata e satura, ma poco riesce a essere lucido nella trattazione come Crisis Zone di Simon Hanselmann.

Prima ancora che nel merito stretto di quel che Hanselmann ha scritto e disegnato per comporre questa serie, pubblicata in un volume unico qui in Italia da Coconino Press, credo che la potenziale importanza e l’attinenza con i tempi attuali siano riscontrabili già dal metodo con cui l’autore australiano ha voluto distribuire preliminarmente (ovvero prima di una pubblicazione cartacea internazionale).
Dal 13 marzo 2020 in avanti, infatti, il suo profilo Instagram è diventato il luogo di ritrovo per tutte le persone affezionate a Megg, Mogg e tutti gli altri dissacranti ed estremi personaggi che abitano da sempre le pagine dell’autore e scoprire come quel branco di differenti forme di emarginazione sociale avrebbero fatto i conti con l’emergenza pandemica.

Giorno dopo giorno, a Crisis Zone venivano aggiunti pezzetti centellinandoli una pagina alla volta che Hanselmann ha postato in modo continuativo per diversi mesi. Una modalità che ci dice già molto sia sul contenuto che sul tempo preciso in cui è stato realizzato il tutto. Un periodo, il nostro, in cui l’iper-connessione e la bulimia da informazioni subiscono una impennata drastica e pericolosa per via di una malattia che uccide persone in tutto il mondo. Una diffusione nella diffusione, un doppio contagio che scoperchia il vaso di pandora delle nostre abitudini e le ribalta, le aumenta e le rivoluziona mantenendone il principio cardine: il bisogno di sapere, per paura di rimanere fuori dal momento.

crisis zone

Per chi non conoscesse l’opera di Simon Hanselmann è necessaria fare una piccola digressione. Il suo è da sempre un modo di fare fumetti estremo, di quelli che vi vergognate a leggere in metropolitana perché chissà mai cosa penserà di voi quella vecchietta che avete seduta a fianco. I suoi personaggi vivono ai margini dei margini della società americana, in un miscuglio maleodorante di fluidi corporei, promiscuità e abuso di ogni genere di sostanza vi possa venire in mente. Partire da questo concetto inquadra in modo piuttosto preciso perché Crisis Zone è un racconto così tanto lucido nella sua totale anarchia nel descrivere l’era in cui viviamo. I fatti – dalla mancanza di provviste nei supermercati alla creazione di zone temporaneamente autonome da parte del movimento ANTIFA negli Stati Uniti – si incastrano con le vicissitudini assurde che l’autore fa vivere ai suoi personaggi, perché tutto viene riportato a un’osservazione ponderata del qui e ora che porta a galla tutti i problemi irrisolti, spesso sepolti per far finta che non esistono, della società occidentale contemporanea. Dalla già citata ossessione voyeuristica per il contenuto al disperato bisogno di pensare ad altro mentre il mondo affonda, dalla solitudine assoluta all’usare internet come palliativo che in realtà amplifica questo isolamento.

Crisis Zone però non è soltanto uno strumento con cui leggere la nostra epoca, per riconoscere le problematiche della nostra vita attraverso le esagerazioni scurrili di un fumettista così fuori dagli schemi da averne creato uno tutto suo in cui altre persone piano piano stanno entrando. È anche un manuale per ricavare le basi fondamentali del come si struttura una narrazione, dove viene a più riprese sottolineata la necessità di creare in chi legge la certezza di percepire capacità di osservazione e non soltanto quella di riassumere situazioni universali in cui potersi riconoscere. Il ribaltamento totalmente della prospettiva più semplice e di uso comune delle storie di oggi, ovvero quelle per cui non conta tanto ciò che viene srotolato a livello di intreccio ma le situazioni singole che devono a forza richiamare quelle personali di chi usufruisce di quel dato prodotto. Il fatto solo che esista qualcosa di simile che tratta un tema così tanto abusato e saturo come quello dei “diari della pandemia” rimarca che è possibile trovare delle narrazioni alternative, basta partire dalla conoscenza più che dalla trasversalità forzata.

crisis zone

Per concludere: Crisis Zone è la prova che si può parlare di attualità senza scadere nel prevedibile ma riuscendo comunque a raccontare sia i fatti che sensazioni comuni che chiunque può avere provato. Un fumetto che si inserisce in quei (pochi) esempi di narrazione dell’era pandemica che hanno la giusta lucidità e soprattutto penne di livello ad accompagnare la crudezza e la schiettezza delle situazioni. Un processo che ricorda da vicino quanto svolto da Nick Cave e Warren Ellis (anch’essi australiani, proprio come Hanselmann) nel loro album Carnage, nel quale la violenza del nostro tempo diventa l’occasione per liberare un sentimento che chiunque cova dentro di sé ma che ha bisogno del tono adeguato per uscire fuori: l’amore. Le storie del reale devono dunque ripartire da chi le gestisce, le scrive e le pensa e non soltanto dal consumo o dal contenuto che deve essere svolto entro un tempo limite.
Il punto zero è qui, sta a noi accoglierlo come merita.

Luca Parri
Nato a Torino, nel 1991, Luca studia scienze della comunicazione come conseguenza della sua ossessione nei confronti delle possibilità che offrono i mezzi di comunicazione e ha lavorato come grafico e consulente marketing (lavoro che ha fatto crescere esponenzialmente la sua ossessivo-compulsività per le cose simmetriche e precise). Lo studio gli ha permesso di concretizzare la sua passione per i differenti linguaggi dei media, sperimentando con mano l'analisi linguistica e semiotica; il lavoro gli ha dato la possibilità di provare a inserire la teoria nel pratico. Studio e lavoro, insieme, lo hanno portato a scrivere di, tra gli altri argomenti, grafica pubblicitaria, marketing, comunicazione e comunicazione visiva collegata al videogioco.