Il capitolo più controverso e rivelatore della saga di Doom

Negli ultimi giorni Bethesda, vuoi per bontà o perchè il riscaldamento globale rende l’atmosfera più adatta, ha deciso di rilasciare a sorpresa la trilogia originale di Doom su tutte le console di nuova generazione. Ttutti i possessori di PlayStation 4, Xbox One e Switch possono dunque vivere, immersi nel sudore dell’estate, le prime discese agli inferi di un inconsapevole marine rimasto solo contro orde di demoni assetati di sangue, più precisamente del suo.

Negli anni sono stati versati litri di inchiostro digitale su quanto Doom e il suo sequel siano stati pietre miliari di un genere che ancora doveva esprimere tutto il suo potenziale, ovvero gli FPS, scardinando al tempo stesso le regole che andavano a comporre i classici canoni del videogioco. Per queste ed altre ragioni, preferiamo invece concentrarci sul capitolo più discusso e criticato ma che, rigiocato nel 2019, ci permette di comprendere molto sull’evoluzione degli FPS ma anche della saga stessa: Doom 3.

Doom Trilogy

Un titolo sbagliato già dal titolo

Parlando a livello storico, Doom 3 arriva nei negozi di tutto il mondo il 13 agosto 2004, dopo una gestazione complessa a causa dei contrasti nati proprio durante lo sviluppo in seno a id Software. Il fulcro del problema fu l’ostinazione di id, nella figura di John Carmack, di voler fare un remake di un gioco già esistente invece di creare nuove IP (un’idea che fa molto sorridere nel 2019). Nonostante le tensioni, però, il successo commerciale di Return to Castle Wolfenstein permise a Carmack di continuare il suo cammino, oltre a confermare il tracciato che avrebbe seguito il progetto: un remake moderno ed un vero e proprio reboot della saga.

Doom 3 giocato per la prima volta sembra un gioco del tutto nuovo, anche se si tengono a mente alcuni elementi ricorrenti come alcune tipologie di nemici e armi. Una caratteristica peculiare del gioco è infatti la presenza di una vera e propria trama, al contrario del canovaccio che aveva spinto autonomamente i giocatori ad annichilire demoni senza una reale motivazione.

Questo elemento è centrale, a mio avviso, in quanto la necessità di sviluppare una storia alle spalle di Doom sembra più essere una sorta di adattamento al mondo moderno del 2004 che al desiderio di creare qualcosa di davvero solido in termini narrativi, ad uso e consumo di eventuali giochi futuri.

La trama di Doom si basa sulle operazioni della Union Aerospace Corporation, una corporazione tecnologica creciuta oltre ogni limite che decide di costruire dei centri di ricerca su Marte per poter realizzare una vasta gamma di esperimenti, alcuni dei quali moralmente ed eticamente discutibili al punto da ritenere opportuno svolgerli sul pianeta rosso. E poi ci siamo noi, un anonimo marine spedito su Marte come un impiegato qualunque, che diventa nel giro di qualche minuto l’uomo giusto nel posto più sbagliato del sistema solare.

Generalmente sono un narratore migliore, eppure credo che la trama di Doom 3 sia fin troppo ricca e pretenziosa per essere apprezzata: mi permetto di paragonarla a quei remake di film anni ‘80 nati semplici e perciò validi, ma che i produttori moderni sentono di dover rimaneggiare per renderli il più possibile seri, come se aggiungere dei toni drammatici automaticamente permetta di rendere una trama più solida e godibile (tipo Robocop, per capirci).

C’è anche da dire che alcune intuizioni dell’epoca sono tuttora apprezzabili, ad esempio il nostro PDA personale con cui interfacciarci con i tanti computer presenti, spesso fonte di informazioni aggiuntive volte a rendere più credibile la nostra tanto amata lore di gioco, talvolta con dettagli divertenti come la presenza di una motosega terrestre, una spedizione errata che però trova una sua ragion d’essere oprattutto per infilzare demoni.

Quando Doom 3 era il Crysis di una volta

Sul piano puramente tecnico, Doom 3 si avvaleva di un motore grafico proprietario avverinistico, creato appositamente per lo sbarco di Doom nel vero mondo 3D: l’id Tech 4.

È doveroso fare una piccola parentesti storica: gli anni 2000 non erano un gran periodo per il PC gaming. Contrariamente ad ora, giocare su computer non era una moda o un segno di vanità ripieno di LED, bensì una filosofia di vita quasi destinata all’estinzione a causa di un mercato console in costante crescita e dotata di tecnologie tanto avanzate quanto semplici da usare. L’arrivo di PlayStation 2 prima e Xbox poi avevano portato il PC ad essere snobbato, lasciato in vita solo per una ristretta nicchia di generi come strategici e sparatutto online, possibilmente arena visto che tra Quake e Unreal Tournament c’era da divertirsi abbastanza.

Questa digressione era necessaria per far capire quando il mondo PC avesse disperatamente bisogno di giocatori e Doom 3 fu una risposta piuttosto appropriata, grazie anche ad un motore grafico che all’epoca raggiungeva risultati sbalorditivi anche sui PC di fascia bassa, ovvero la stragrande maggioranza se non si era nel circuito primordiale degli esport.

Doom trilogy

Oggi Doom 3 fa sicuramente sorridere, grazie ad una conta poligonale che lascia vedere la sua età, tuttavia riesce ancora a farsi voler bene grazie all’intelligenza del team di sviluppo di creare un gioco tagliato su misura per le potenzialità dell’id Tech 4, in particolare sul suo complesso sistema di gestione della luminosità.

Quando prima si parlava di un Doom diverso, infatti, si parlava di un drastico cambio di rotta del gameplay: quello che una volta era un gioco basato sull’esplorazione senza soluzione di continuità per raggiungere la fine del livello, era diventato un FPS sci-fi fortemente horror. Laddove una volta c’era il senso di onnipotenza che rendeva i massacri dei demoni il cuore del gioco, ora siamo un anonimo marine in una stazione spaziale fatta di corridoi stretti e bui e il nostro obiettivo primario è sopravvivere, con una torcia ad illuminare poco e nulla e lasciandoci in balia degli eventi.

Doom 3 mi ha ricordato quel senso di angoscia vissuto in questa generazione con Alien Isolation e Prey: entrambi hanno saputo ricordarmi, come giocatore, il senso di angoscia generato dall’essere costantemente in pericolo e con poco spazio di manovra. Le affinità con Alien sono sicuramente maggiori per quanto concerne il design degli ambienti, con quell’idea di futuro che mixa oggetti d’uso comune a tecnologie futuristiche ancora fuori dalla nostra portata.

Quanto a Prey, titolo drammaticamente sottovalutato, vi è sicuramente qualcosa in comune con gli oggetti circostanti. Mi spiego: quando nei classici Doom si raccoglievano alcuni oggetti, spesso e malvolentieri si aprivano passaggi segreti spesso ricchi di demoni desiderosi di ammazzarci. Anche in Doom 3 questa meccanica è stata trasposta, con il plus horrorifico di cui sopra che dunque ci porta ad essere molto più sospettosi di quanto non avremmo fatto in passato.

Con Prey il discorso è simile, se non fosse che vale per quasi ogni cosa presente nel gioco, aumentando a dismisura il disagio con cui si decide di interagire con qualcosa.

Mi sento abbastanza sicuro di poter affermare che Doom 3 sia stata un’influenza fondamentale per questo tipo di giochi, ovvero FPS dalle tinte cupe e con elementi survival che tengono sule spine il giocatore. Ci sarebbero tanti esempi, ma magari ne parliamo nei commenti.

Oggi: il Doom di una volta che torna in cattedra

Come avete sicuramente intuito, Doom 3 mi ha lasciato molto di cui discutere; tuttavia gran parte di queste discussioni non avrebbero mai visto la luce se non fosse stato per un altro gioco che mi ha permesso di trovare questo fil rouge: DOOM.

Doom

Parlo ovviamente del capitolo uscito nel 2016, tecnicamente un secondo reboot della serie arrivato a sorpresa e che, secondo la mia modesta opinione, è il miglior FPS di questa generazione. Lo affermo conscio di essere un vecchio che non riesce a non farsi sedurre da un gameplay più snello della norma attuale, ma anche galvanizzato da un’esperienza di gioco frenetica e senza fronzoli, forse anche in virtù della necessità di staccarsi in modo netto dal passato.

In Doom 3, per esempio, la trama e la lore di gioco sono elementi messi a favore di camera per essere notati e compresi. Nel nuovo Doom, invece, appena si comincia ad avere un accenno di trama, il misterioso Doomguy prende e sfascia tutto, lasciando intendere che delle motivazioni dietro l’invasione di Marte non gliene può fregare di meno. Un atto ribelle che suona anche come un ceffone in faccia a tanti titoli che puntano ad una trama solida per poi perdersi in esperienze modeste, come spesso accade negli FPS e non solo.

Magari può essere anche uno schiaffo al passato, a quando si pensava che Doom potesse essere qualcosa di più di uno sparatutto e che fosse necessario dargli un background di livello. Mi piace pensare che questa idea sia morta nel momento in cui si decise di fare un film sul gioco, uscito nel 2005 con The Rock attore protagonista, talmente brutto da sentirmi un po’ infame ad averlo nominato in questo articolo.

Visto da questa prospettiva, il nuovo Doom sembra la naturale prosecuzione di ciò che c’era in passato, un’evoluzione che a sua volta rinuncia alle tante aggiunte del passato come se avesse preso consapevolezza del suo potenziale. Questo è d’altronde il concetto che ha permesso a Doom di tornare sulla cresta dell’onda: non siamo più un Marine sperduto nello spazio che lotta per sopravvivere, siamo una macchina da guerra in carne ed ossa che vuole fare mattanza di demoni come se non ci fosse un domani. Siamo animati da quel senso di vendetta à la Max Payne, armati fino ai denti e intenzionati a decimare la popolazione degli Inferi fin dentro casa loro. Citando il Rorschach di Watchmen, “non sono io rinchiuso qui con voi, siete voi rinchiusi qui con me”.

In conclusione, l’operazione nostalgia di Bethesda ha il suo perchè: Doom 3 è un titolo che ha fatto scuola a modo suo, uno dei migliori del 2004 e che probabilmente ha ispirato molti più game designer di quanto si dica. Inoltre, se come me siete in attesa spasmodica di Doom Eternal e non sapete davvero resistere all’idea di impallinare demoni, l’intera trilogia ad appena 20€ sarà sicuramente il vostro affare personale dell’estate. Da giocare rigorosamente senza condizionatore però, l’atmosfera ne gioverà.

Francesco Paternesi
Pur essendo del 1988, Francesco non ha ricordi della sua vita prima del ’94, anno in cui gli regalarono un NES: da quel giorno i videogiochi sono stati quasi la sua linfa vitale e, crescendo con loro, li vede come il fratello maggiore che non ha mai avuto. Quando non gioca suona il basso elettrico oppure sbraita nel traffico di Roma. Occasionalmente svolge anche quello che le persone a lui non affini chiamano “un lavoro vero”.