Game Of The Year di Alessandro Redaelli è una cartolina in movimento sul cosa vuol dire lavorare intorno al videogioco nel nostro paese.
Il cinema documentario d’osservazione, anche negli esempi più estremi e di ricerca come quello di tipo etnografico (dove l’analisi sociologica accademica incontra la settima arte), è oggigiorno un approccio sempre più diffuso e trasversale che valica limiti di temi o contesti mettendo in primo piano la naturalezza e la spontaneità delle persone e delle loro storie. Una spinta alla ricerca di una verità quanto più possibile assoluta, impenetrata da chi dirige e filma ma che di queste e questi giocoforza rispecchia le visioni sul mondo. Una purezza narrativa mediata dallo sguardo personale che, ora, raggiunge anche il videogioco(e nello specifico come si collega il lavoro a questo medium, nel nostro paese) grazie a Game Of The Year di Alessandro Redaelli, presentato in concorso al Biografilm Festival di quest’anno.
Dopo la crudezza – anch’essa frutto di un processo di osservazione – della tossicodipendenza a Milano rappresentata nel film Funeralopolis, Redaelli approda quindi in un mondo quasi opposto: quello del videogioco. A non variare, però, è la scelta di circoscrivere al nostro paese le storie raccontate, tutte collegate tra di loro per essere riguardanti persone che attraverso il medium cercano di vivere in modo trasversale: siano esse o essi streamer, studi di videogiochi o atlete e atleti di esports. I due elementi cardine di Game Of The Year sono, dunque, la geografia e la professionalità e come questi due dialoghino in modo attivo con il videogioco. Come lo stesso regista ci ha potuto dire in una puntata del nostro podcast:
SE UNA PERSONA NON È INTERESSATA AI VIDEOGIOCHI, NON SI GUARDERÀ MAI UN DOcumentario che parla prettamente di videogiochi. Quello che volevo fare io, invece, era raccontare il videogioco attraverso la vita delle persone.
Alessandro Redaelli, in Gaming Wildlife episodio 27 del 17/01/2021
Un film, quindi, che vuole portare sul piatto in modo più limpido e puro le storie e le persone, usando il videogioco come perno anziché come tema centrale. Una volontà, quella di Redealli, che è contemporaneamente sia filmica che tematica. Da un lato, infatti, la precisa ricerca di una via che portasse a un prodotto dotato di una sua dignità cinematografica e di una estetica precisa. Dall’altro quello di proporre un film che non fosse l’ennesima proposta dal taglio educational ma che avesse un respiro più ampio e potesse essere appetibile anche da chi non è avvezza o avvezzo il tema. Il tutto con la prerogativa di raccontare le persone, senza intervenire direttamente ma mettendoci dentro la propria visione politica (sia in generale che specificatamente sul videogioco).
Guardare senza intervenire
Come già parzialmente anticipato, lo sguardo di Redaelli nelle storie contenute in Game Of The Year è oltre l’impercettibile fino a rasentare la totale invisibilità. I gesti e le abitudini delle persone sono restituiti a chi guarda in modo naturale, dando la possibilità di costruire pensieri personali a partire dagli sguardi, dai sorrisi sommessi durante una foto con la folla acclamante, dall’euforia del trionfo in una partita multiplayer o dalla frustrazione dei problemi quotidiani che impattano contro ciò che lega ognuna e ognuno con il videogioco. Le storie sono quindi condotte da chi in primo luogo e persona le sta vivendo, senza interventi o artifici esterni che possano filtrarle o rendere meno autentiche.
Questa ricerca precisa di autenticità, però, non è da confondere con la mancanza di una direzione e di una precisa visione da parte del suo autore. Al contrario Game Of The Year contiene al suo interno in modo preciso e puntuale ciò che il suo regista pensa dello stato di salute del videogioco e delle comunità che gli gravitano intorno. Non giudica le persone che riprende, non critica e non pone un voto (o un veto) sulle loro scelte. Ciò che comunica è piuttosto una critica ai sistemi in cui queste persone devono avere a che fare: ponendo gli accenti dovuti senza mai prendersi il permesso di condannare chi sta guardando. Spesso il senso che viene fuori le immagini è di profonda vicinanza, di empatia e voglia di comunicare le proprie idee non attraverso o sfruttando le storie altrui ma a partire da e mantenendo sempre un focus sul rispetto della singola o del singolo.
È possibile dunque considerare il film un manifesto politico di ciò che Redaelli pensa del videogioco, di come esso abbia forgiato un linguaggio sociale e ragionare sopra questi contesti per valutarne superamenti o eventuali rivoluzioni. Vicinanze con la lotta di classe che normalmente circola nel lavoro, punti di contatto con i problemi di identità di genere e sessualità, ma anche discorsi interni al contesto specifico: tutto viene catturato dal suo occhio e poi elaborato dal suo cervello per dare a chi guarda un ragionamento personale.
Spaghetti e fibra ottica
Un altro degli elementi che contraddistingue il film, evidentemente collegato con quanto scritto nel paragrafo precedente, è rappresentato dallo spettro geografico a cui si riferisce Game Of The Year: l’Italia. Come spesso accade per i racconti delle persone che vivono il nostro paese c’è anche qui una certa dicotomia narrativa tra il vivere in un mondo iperconnesso e in preda a un progresso tecnologico sempre più imperante e la provincialità, la ruralità e la mentalità che dominano il nostro paese. Questo, oltre a essere un elemento tematico molto forte, aiuta a creare un contatto tra persone nel film e pubblico: un contesto in cui riconoscersi.
Succede dunque di vedere il pluripremiato Reynor dividersi tra i campionati internazionali di Starcraft 2 e l’esame di maturità del nostro sistema scolastico. O ancora seguire lo youtuber Sabaku No Maiku, tra abbracci con i e le fan e sguardi intimi e profondi durante le fasi di attesa delle fiere. Una commistione tra piccolo e grande, tra mentalità globale e quella del paesino, che attraversa ciascuna delle storie. Agli occhi di chi guarda quindi arriva un film che colloca precisamente le persone in uno specifico contesto e che comunica le proprie idee su di esso senza mai invadere i confini di quel che viene raccontato. Un documento, prima che un documentario, che dovremmo portare con orgoglio sia internamente che all’esterno del nostro paese.