Alla scoperta dei migliori documentari sui videogiochi

Comprendere come si svolgono e concretizzano le dinamiche interne allo sviluppo di un videogioco è certamente una possibilità interessante. Anche il cinema può aiutarci in questo processo informativo: vi proponiamo quindi una selezione di quattro documentari sui videogiochi, utili a conoscere meglio persone e concetti dietro ai prodotti.

Quando ci interessiamo circa lo sviluppo di un titolo, solitamente, la nostra attenzione si rivolge verso il prodotto. Siamo particolarmente interessati al “cosa”, senza preoccuparci troppo dei “chi”, dei “come” e dei “perché”. Senza entrare troppo a fondo nella questione, domandandomi se sia giusto o sbagliato orientare il proprio hype verso ciò che viene fatto e non dai nomi e dalle motivazioni che ci stanno dietro, scrivo questo articolo per cercare di condensare – aiutato da supporti narrativi decisamente più funzionanti della mia parola scritta – l’importanza di poter associare volti (e di conseguenza idee) a ciò che giochiamo. Come spesso accade per questo tipo di narrazioni, anche per questo hobby e questa industria esistono prodotti che raccontano questi retroscena: i documentari sui videogiochi.

Quella che state per leggere è, dunque, una lista pensata per incuriosire sia sullo spettro generale dei documentari sui videogiochi ma anche (e forse soprattutto) per ribadire come l’arte sia spinta dal motore fondamentale delle persone, a prescindere dal fatto che creino o fruiscano. Ovviamente quanto segue è da intendersi come assolutamente parziale, perché non esistono soltanto i quattro documentari che vi sottoporrò. Li ho selezionati, però, perché sono collegati dallo spirito di voler raccontare e mettere sul piatto chi effettivamente agisce dietro le quinte con le proprie storie, i propri pensieri e la propria visione particolare e personalissima del mondo. 

Game Changers: alle origini del tutto

Game Changers ci porta indietro nel tempo, precisamente nella seconda metà degli anni ’70. Qui facciamo la conoscenza di un gruppo di giovani ingegneri hippy che volevano scardinare totalmente l’egemonia bellica e militarista delle nuove frontiere informatiche. Sto ovviamente parlando di Nolan BushnellTed Dabney e tutte le altre persone che, tra uno spinello e l’altro, hanno portato alla nascita di quella piccola grande rivoluzione che ora conosciamo con il nome di Atari, la cui storia è il fulcro di questo documentario realizzato e prodotto da History Channel (reperibile in Italia sulle piattaforme di proprietà di Sky).

La loro missione era quella di fare in modo che l’informatica potesse raggiungere la gente, proponendo un’alternativa all’insegna dello svago. Cercare di scivolare via al giogo degli eserciti dimostrando applicazioni del digitale che non fossero solo appannaggio di questi, ma anzi democratizzare il tutto come atto rivoluzionario. I nostri, dunque, passano da una realtà clandestina fatta di hacking e circolazione di software interna e sottobanco al sogno di portare nei negozi e per tutte le persone qualcosa che avesse un solo e un unico scopo: divertire.

documentari videogiochi

Il documentario è quindi un piccolo compendio circa la nascita, la crescita e il successivo declino di Atari, dalla creazione della prima console per videogiochi con software intercambiabili – il 2600 – passando per la grande crisi del 1983 e terminando con la rinascita del settore ad opera di alcune aziende nipponiche. Una riflessione sul lavoro di Bushnell e soci e su quanto il loro approccio libero e totalmente in contrapposizione con il sistema gli abbiano permesso di creare una rivoluzione totalmente inaspettata, fin quando quello stesso sistema li ha inghiottiti e rigurgitati una volta fiutato l’affare.

L’eredità che l’azienda e quello sparuto gruppo di giovani californiani ci hanno lasciato è tremendamente preziosa e va rispettata e celebrata a dovere. Il documentario Game Changers restituisce loro questo favore, encomiandone l’importanza ma anche facendone notare l’ingenuità e la mancanza di esperienza nella gestione di un’azienda che li ha portati al fallimento, lasciandoci però con uno dei doni più inestimabili della storia contemporanea. In questo film si compie un esercizio tipico dei documentari sui videogiochi, e di tutto il genere: le interviste sono montate in modo cronologico e la narrazione viene alternata da materiale di repertorio.

Indie Game: The Movie – La grandezza dei più piccoli

Rendersi conto dell’importanza fondamentale che ha avuto, nel videogioco, il movimento di sviluppatrici e sviluppatori indipendenti nato tra il 2008 e il 2010 è un compito abbastanza semplice. La spinta che queste produzioni hanno dato al settore è stata talmente forte ed evidente che anche giocatrici e giocatori con una conoscenza meno approfondita del medium sanno il valore che possono avere certi prodotti creati da studi minuscoli, se non quando da persone singole. Il documentario di James Swirsky e Lisanne Pajot – dall’emblematico ed eloquente titolo Indie Game: The Movie – pone la sua attenzione su quattro personalità che si sono trovate ad essere protagoniste e precursori di questo movimento.

Vengono raccontate qui le storie di Jonathan Blow (BraidThe Witness), Phil Fish (Fez), Edmund McMillen (SuperMeat Boy, The Binding of Isaac) e Tommy Refenes (SuperMeat Boy) e dei processi personali e creativi che li hanno portati a realizzare i loro debutti nella scena videoludica portando chi guarda a riflettere su quanto questi giochi e soprattutto i loro creatori abbiano scolpito e avviato un’avanguardia fondamentale e definitiva per un’epoca. Si delineano i profili dei quattro creativi in modo da permettere di percepire le differenze di visioni di ciascuno rispetto agli altri, per comprendere che anche un’etichetta come quella di indipendente permette di raggruppare tantissime prospettive differenti, accomunate da un unico approccio.

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Indie Game: The Movie è il documento storico fondamentale per capire l’importanza dell’atto compiuto da quelle sviluppatrici e quegli sviluppatori che hanno voluto agire da outsider nel videogioco e che, grazie alla diffusione di internet, hanno potuto prendere posto accanto alle grandi produzioni più blasonate. Una testimonianza parziale di un mondo sconfinato e in continua mutazione che deve tantissimo a quei pionieri di cui i quattro protagonisti del film sono soltanto un nucleo scelto per rappresentanza. Potete recuperare il documentario su Steam o su Amazon Prime Video. Un documentario, questo, che ha anche un significato più strettamente filmico tanto da partecipare in concorso al festival SXSW.

Diggin’ in the Carts: l’urlo della macchina

Per chi non lo sapesse, da qualche anno, l’azienda di bevande energetiche Red Bull si impegna nella creazione e produzione di prodotti culturali dedicati alla musica, agli sport estremi e al videogioco. Fa parte di questo percorso Diggin’ in the Carts, serie di documentari disponibile su YouTube, dedicata alla scena musicale giapponese di musiche per videogiochi. Un dialogo generazionale tra quelle compositrici e quei compositori e musicisti contemporanei che fanno parte della divisione musicale dell’azienda, la Red Bull Music Academy.

La docuserie si sviluppa in modo tale da tirar fuori dall’anonimato chi ha composto alcune delle colonne sonore più iconiche dei videogiochi delle epoche a 8 e 16 bit partoriti nel paese del sol levante per mettere quei brani a confronto con chi produce musica elettronica oggi, capendo che ruolo hanno avuto tali melodie nello scolpire e definire un modo di comporre e produrre musica. Vediamo quindi il dj e produttore di musica dubstep Kode_9 in una conversazione virtuale con Hip Tanaka (collaboratore di Shigeru Miyamoto e compositore della OST di Mother 3) dialogare circa le influenze che ciò che il musicista sentiva da ragazzino uscire dalla sua console ha avuto sul suo lavoro ventennale di ricerca del suono.

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La serie serve quindi sia per collegare facce a suoni e anche per comprendere quanti i videogiochi possano aiutare a definire culturalmente la società. Non è un caso che, da Diggin’ in the Carts, siano nati un album curato dallo stesso Kode_9 con vari remix di brani delle compositrici e dei compositori presenti nei video e addirittura un tour che ha portato alcune artiste ed alcuni artisti a contatto con il pubblico, per celebrare la grandezza e l’importanza della video game music. Un progetto dunque che si compone più su livelli: si parte dai documentari sui videogiochi per poi portare quei contenuti, visivi e sonori, sui palchi di tutto il mondo.

Playing Hard: la sciagura del capo guerra

Concludo questa selezione – a cui seguiranno altri consigli, più brevi – parlando di Playing Hard, documentario dedicato allo sviluppo del gioco For Honor e alle persone che hanno lavorato al progetto per quattro anni. Il film si concentra sul delineare e descrivere tre personalità chiave dietro alla realizzazione del gioco: Jason Vanderbenghe (direttore creativo), Luc Duchaine (responsabile marketing e comunicazione) e Stephane Cardin (produttore esecutivo).

Il film parte dall’idea che sta alla base del titolo di combattimento di Ubisoft e di come essa sia, fondamentalmente, un sogno ricorrente che ha occupato buonissima parte della vita di Vandenberghe. L’uomo ha infatti sempre voluto avere tra le mani un gioco che replicasse i combattimenti corpo a corpo con armi bianche ambientato in epoca medievale e l’idea di poterlo realizzare lo esalta. Si apre quindi un intenso ibrido tra narrazione e dev-diary che segue passo passo tutti gli stadi della produzione, andando a sottolineare stati d’animo e personalità dei tre protagonisti.

Playing Hard è un insegnamento circa le responsabilità degli autori verso le loro opere, e di come sia necessario rendersi conto di quando fare un passo indietro e lasciare che sia il prodotto ad agire per se stesso. Vanderberghe riflette su cosa il suo sogno sia diventato una volta che ha potuto realizzarsi grazie ad un team di dimensioni ben oltre la più rosea delle sue aspettative. Una riflessione in forma filmica sulle proporzioni del lavoro creativo, e su quanto esso debba rimanere circoscritto o esteso.

Altri sguardi

Lo spettro dei documentari sui videogiochi è certamente più ampio e ricco di quanto raccontato in questo articolo. Sia esso distribuito direttamente dalla casa produttrice o realizzato da appassionate e appassionati, è infatti probabile che il vostro gioco preferito sia in qualche modo stato trattato in un approfondimento di questo tipo. Non sono affatto rari, infatti, i retroscena che raccontano in forma strettamente narrativa lo sviluppo di un gioco. Un esempio su tutti è Grounded, making of di The Last Of Us realizzato e prodotto direttamente Sony e Naughty Dog dedicato alla realizzazione della storia di Joel ed Ellie.

Non mancano, infine, anche interi canali youtube dedicati alla produzione di filmati che esplorano il videogioco in forma documentaria. Approcci storici – nel senso letterale del termine – come quello di Gaming Historian e Ahoy che ripercorrono la progressione temporale di un dato sistema o gioco in un modo strettamente storico o ancora serie di veri e propri saggi che dissezionano i videogiochi sotto una lente di game design e struttura, come Game Maker’s Toolkit e Errant Signal.

Luca Parri
Nato a Torino, nel 1991, Luca studia scienze della comunicazione come conseguenza della sua ossessione nei confronti delle possibilità che offrono i mezzi di comunicazione e ha lavorato come grafico e consulente marketing (lavoro che ha fatto crescere esponenzialmente la sua ossessivo-compulsività per le cose simmetriche e precise). Lo studio gli ha permesso di concretizzare la sua passione per i differenti linguaggi dei media, sperimentando con mano l'analisi linguistica e semiotica; il lavoro gli ha dato la possibilità di provare a inserire la teoria nel pratico. Studio e lavoro, insieme, lo hanno portato a scrivere di, tra gli altri argomenti, grafica pubblicitaria, marketing, comunicazione e comunicazione visiva collegata al videogioco.