La comune origine di Halloween e della festa del bon

Nel giorno in cui anche a Shibuya e Shinjuku le strade vanno riempiendosi di streghe, vampiri e zucche in vista della tanto attesa notte di Halloween, con somma disdetta dei difensori della tradizione avversi a queste dannate “feste commerciali”, è un buon momento per domandarsi come nel paese del Sol Levante sia vissuto il rapporto con l’aldilà, alla ricerca di differenze e punti di contatto tra due tradizioni spirituali che sulla morte hanno ragionato a lungo.

Partendo appunto dal Giappone, già tempo fa abbiamo provato a raccontarvi della celebrazione del bon, una delle poche espressioni della cultura tradizionale ancora vivamente sentita e partecipata anche dagli abitanti delle grandi città, che approfittando delle promozioni stagionali su voli e shinkansen tornano al proprio paese d’origine (furusato) per intagliare melanzane e cetrioli, porre offerte sull’altare domestico e infine affidare alla corrente del corso d’acqua più vicino le suggestive lanterne votive. Tuttavia, nonostante l’apparenza di spontaneità e semplicità, non bisogna dimenticare che anche le pratiche del bon sono frutto di un lungo processo di armonizzazione tra forme di religiosità popolari e esigenze dottrinali di più alta caratura, al pari di quanto avvenuto con Halloween e la sua difficile integrazione nell’economia dell’anno liturgico cristiano.

In primo luogo, sia il bon che Halloween trovano la propria origine nella necessità, avvertita dalle comunità rurali, di celebrare la fine dell’estate rendendo grazie per il raccolto, allo scopo di mantenere inalterato il favore degli antenati in vista delle avversità dell’incombente stagione fredda. A tali esigenze si sono poi sovrapposte nel tempo quelle più istituzionali del clero cattolico e buddista, mossi da un comune intento normativo: da un lato, quella di ricondurre una credenza precristiana nell’alveo della vera fede, sorvolando sulla sua simbologia paganeggiante in virtù della supposta affinità con la preesistente usanza di celebrare santi e martiri; dall’altro, quella di riportare i monaci buddisti, che spesso conducevano un’esistenza appartata per dedicarsi alla meditazione, al centro della vita delle comunità, costruendovi attorno un rito che prevedesse la presentazione di offerte ai seguaci del Buddha affinché questi ultimi potessero intercedere per le anime dei defunti.

Guardando poi a come entrambe queste festività si siano evolute nel corso dei secoli, arrivando in un caso a perdere quasi del tutto il proprio portato religioso – tanto da porsi quale comun denominatore di un “folclore universale” di stampo consumistico –, in un altro a estromettere la figura dell’officiante appartenente al clero per riportare il potere negoziale del rito nelle mani dei laici, non è difficile capire come parlare di “tradizione” in riferimento a credenze così eterogenee e stratificate sia un discorso abbastanza scivoloso, con cui si rischia di perdere di vista l’interrogativo centrale, ovvero la visione dell’aldilà che queste sottendono.

Visioni dell’aldilà in Giappone: due cosmologie a confronto

Concentrandosi su quest’ultimo punto, in riferimento al contesto dell’Arcipelago, si viene inoltre a scoprire che, nonostante l’apparente rigore rituale caratterizzante i momenti più importanti della vita religiosa dei giapponesi, le categorie di morte e di aldilà sono molto più incerte e sfumate che nella tradizione cristiana, complice un approccio all’ignoto più pragmatico e meno ossessionato dagli assoluti – almeno in una prima fase della storia del pensiero locale.

Fondamentalmente, due sono le visioni cosmologiche – e per traslato di oltretomba – che si intrecciano alla base della cultura nipponica: da un lato, la matrice altaica, strutturata verticalmente, per la quale sussistono tre dimensioni distinte e nettamente separate da barriere naturali, con il mondo degli dèi (takamagahara, la “piana celeste”) all’apice, il mondo degli uomini (kono yo, ovvero “questo mondo”) nel mezzo e quello dei defunti (yomi no kuni, il “regno dell’oscurità”) sotto di esso; dall’altro, troviamo la matrice malayo-polinesiana, strutturata orizzontalmente su due livelli, per la quale i confini tra al di qua e aldilà non sono del tutto impermeabili né distinti, con il mondo degli uomini collegato al tokoyo (il “mondo eterno”) dalla superficie del mare, dal cui fondo od orizzonte è comunque possibile fare ritorno, a certe condizioni.

In definitiva, a parere di diversi antropologi sarebbe proprio quest’ultima visione orizzontale – probabilmente più antica di quella di origine contentale – a prevalere nella cultura popolare giapponese, nonostante la speculazione filosofica dello shintoismo prima e del buddismo poi si sia concentrata essenzialmente sulla sua controparte: si tratta infatti di una cosmologia più rassicurante, che permette di stabilire con rigore precetti, divieti e rituali, e quindi di rimettere alla figura sacerdotale una serie di prerogative sulle quali egli non potrebbe altrimenti esercitare l’esclusiva.

Ciononostante, l’impressione di progressività e revocabilità – perlomeno temporanea – che permea l’iconografia e la narrazione della morte in Giappone è riprova del fatto che l’idea di un aldilà ermeticamente sigillato non ha mai definitivamente attecchito, nemmeno nella religione istituzionale. Basti pensare per esempio che lo stesso inferno buddista (jigoku), con il Re Enma e i suoi gironi che hanno dato adito a tanti parallelismi con il cristianesimo, non si fonda in realtà sul presupposto di irreversibilità della condanna: al contrario, la forza persuasiva del messaggio del Buddha risiede proprio nel fatto che gli atti meritori – compiuti in prima persona o da terzi in propria vece – vengono attivamente conteggiati nel computo della pena nell’oltretomba, tanto che diversi traduttori in lingue occidentali si interrogano oggi sull’opportunità di continuare a tradurre il termine jigoku con il lemma di “inferno”, da Dante in poi indissolubilmente associato all’immagine dei dannati costretti a ripetere il proprio supplizio fino alla fine dei tempi.

Come testimoniato anche dai numerosi racconti popolari di prefigurazioni dell’aldilà o di morte revocata circolanti nella cultura orale, messi successivamente per iscritto da alti esponenti del clero buddista nel Nihon ryōiki e in altre raccolte coeve di setsuwa (“aneddoti” a sfondo edificante) di cui rimangono alcuni frammenti, l’idea che la morte sia uno stato revocabile è fortemente radicata nella cultura giapponese, tanto da causare non poca confusione al momento del contatto con una religione come quella cristiana, che poneva particolare enfasi sulla vita dopo la morte, nonché sulle diverse qualità possedute dall’una e dall’altra dimensione. Complice la particolare storia dell’Arcipelago di isolamento, apertura e infine allineamento con il mondo allora detto “civilizzato”, fin quasi a voler contenderne il primato, tale ambiguità ha continuato a informare le nuove manifestazioni della spiritualità e della cultura popolare fino ai giorni nostri, producendo esiti particolarmente interessanti.

Rileggere i manga come riflessione sull’aldilà: alcuni esempi

In quest’ottica si possono rileggere per esempio alcuni dei manga di maggiore successo del decennio, a partire da Death Note. In esso, troviamo riprodotta una visione chiaramente verticale, con il mondo degli dèi della morte che dall’alto osservano e giudicano il nostro, ma a questa particolare bipartizione – dove l’aldilà sembra non fare distinzioni di ordine etico, ponendosi più semplicemente come ipostasi della dimensione terrena – non corrisponde una separazione netta dei due reami: sul piano qualitativo, gli shinigami non sono esattamente immuni alla morte, tanto che hanno bisogno di mietere vittime per allungare la propria vita; allo stesso tempo, lo strumento all’origine del loro potere può essere condiviso con gli esseri umani e da questi utilizzato, che in tal caso, benché incapaci di recarsi nell’aldilà, arrivano a partecipare della natura divina in qualità di “facenti funzione”, in parte sovvertendo quello che in linea teorica dovrebbe essere un ordine rigido.

Se poi consideriamo il contesto sociale – del tutto verisimile – in cui è ambientato Death Note, a ciò si aggiunge la spiritualità sincretica delle nuove religioni (shin shūkyō), in linea di massima accomunate dall’idea di palingenesi o comunque di creazione di un nuovo ordine, in grado di accorciare la distanza tra la perfezione ideale del mondo superno e le storture di quello terreno, ragion per cui la figura di Kira risulta ancor più carismatica e ben accetta agli occhi di una parte dell’opinione pubblica.

Altro manga che offre spunti interessanti per comprendere l’incerto statuto dell’aldilà nipponico, anche se forse meno conosciuto, è Daydream (Teizokurei DAYDREAM, 2000) di Saki Osuke, la cui eccentrica protagonista Misaki – la mistress di un club sadomaso dal volto innocente – esercita la professione part-time di medium per conto dell’Ufficio di Igiene Pubblica di Tokyo, risolvendo disagi più o meno gravi legati alla presenza di spiriti inquieti (yūrei). L’apparato fideistico qui utilizzato – e puntualmente parodiato/criticato, come si evince dalla caratterizzazione di Yukio, il sacerdote (kannushi) pavido e dai trascorsi pedofili – è quello shintoista, con la sua pletora di rituali e formule magiche che, come riscontrato nella pratica da Misaki, si rivelano del tutto infondati e inefficaci nel placare il rancore delle anime in pena.

In generale, i casi di ordinaria aberrazione in cui si imbatte Misaki sembrano suggerire che sia il crimine – in una prospettiva cristiana, si potrebbe pure dire il peccato – a costituire l’unico vero legame tra questa realtà e il mondo dei defunti, sfatando il mito della comunicazione periodica, consensuale e propizia con quest’ultimo, propinato dallo shintō: chi fa ritorno dall’aldilà non lo fa per dimostrare benevolenza verso i propri discendenti o porgere un omaggio spassionato, ma solo per vendicarsi di un torto subìto, ripianato il quale segue una condizione ignota impossibile da descrivere, più simile al nulla che a un aldilà riproducente le dinamiche sociali dell’al di qua. Ritroviamo insomma i confini sfumati del tokoyo e la dimensione orizzontale, svuotata però delle promesse di trascendenza e beatitudine in favore di una visione più cinica, che affonda le sue radici nell’osservazione della cronaca (nera) quotidiana della metropoli tokyota.

Ci sarebbe ancora un intero repertorio di artefatti culturali da citare, dalle leggende popolari – vi siete mai chiesti cosa rappresenti il Palazzo del Re Drago nella storia di Urashima Tarō? – al fumetto, tanto è centrale e controversa la visione dell’aldilà nella cultura giapponese. Speriamo intanto di avervi dato uno spunto per nuove (ri)letture, per trascorrere un Halloween un po’ diverso dal solito in compagnia del pop nipponico.