La nostra opinione su Stateless, una nuova proposta Netflix

Alcune verità sono così crude da far storcere il naso. Sarebbe più comodo mettere la testa sotto la sabbia come proverbiali struzzi, ma è anche per questo che esistono serie come Stateless: senza il supporto di un mezzo che permette di informare e intrattenere allo stesso tempo, sarebbe impossibile raccontare storie come questa dando loro il giusto peso emotivo.

Creata da Cate Blanchett, che ne è anche co-produttrice esecutiva e interprete – seppur di una piccola parte -, Stateless è una miniserie australiana disponibile su Netflix dall’8 luglio 2020. I sei episodi che la compongono, ciascuno della durata di circa cinquanta minuti, raccontano le vicende di quattro sconosciuti che si intersecano all’interno di un centro di detenzione per immigrati in Australia.

Stateless

Pur trattandosi di un racconto creato ad hoc per il piccolo schermo, c’è molto di reale in Stateless: parte della vicenda è ispirata al caso di Cornelia Rau, una donna tedesca illegalmente incarcerata in un centro detentivo australiano tra il 2004 e il 2005, mentre il resto è un impietoso ritratto della reale situazione dell’immigrazione australiana, dove profughi e rifugiati rischiano di attendere anni incarcerati e senza diritti con una flebile speranza di ottenere un visto.

Stateless, un’impeccabile prova tecnica

Sul fronte tecnico, Stateless gode di una regia impeccabile e di una fotografia sempre sul pezzo, con tonalità calde e avvolgenti che ben restituiscono l’idea di oppressione tanto del caldo australiano quanto del centro di detenzione dove la serie è ambientata.

Dietro la macchina da presa si succede un team tutto al femminile composto da Emma Freeman e Jocelyn Moorhouse (The Dressmaker – Il diavolo è tornato): il loro sguardo sugli eventi è curioso e mai inquisitorio, in grado di rendere giustizia a una malattia mentale quanto a uno stupro e a un episodio di violenza fisica, senza mai tuttavia scadere nel voyeurismo.

Stateless

La sceneggiatura è tuttavia il vero fiore all’occhiello di Stateless: firmata da Belinda Chayko ed Elise McCredie, quest’ultima anche co-creatrice della serie, riesce nell’arduo compito di parlare di un argomento delicato e al contempo non cedere al moralismo. Al di là dell’orribile situazione denunciata dalla miniserie, vale a dire quella degli immigrati detenuti nei centri di accoglienza senza garanzie né rispetto per i diritti umani, lo script si focalizza infatti soprattutto sulla sofferenza dei suoi protagonisti.

Personaggi veri

I personaggi principali sono individui che non potrebbero essere più diversi tra loro. Un’assistente di volo con una crisi d’identità che trova conforto in una setta, dalla quale verrà poi tradita; due padri di famiglia, uno australiano, con un lavoro precario che lo porterà a cercare un impiego che lo cambierà per sempre, e uno afghano, in cerca di una vita migliore per la sua famiglia sulle coste dell’Australia. Infine, una burocrate sopraffatta dalle difficoltà che il lavoro le pone di fronte, invischiata suo malgrado in uno scandalo nazionale.

Due sono gli elementi che uniscono questi personaggi: il centro di detenzione dove le loro strade si incontrano, che fa da teatro alle loro vicende, e la sofferenza. Ciascuno a modo suo, Sofie, Cam, Ameer e Claire sono quattro sfaccettature di quella complicata macchina di sentimenti e conflitti interni che è l’essere umano. Bianco, nero, australiano o no, in Stateless non fa differenza.

Soprattutto, sono tutti personaggi reali, che rappresentano diverse tipologie di persone: la scelta di non assumere un solo punto di vista, mostrando quello dei cittadini australiani e di quelli stranieri, di guardie e detenuti, rende ancora più chiaro quale sia il valore della burocrazia in un simile contesto. Una burocrazia inesorabile e brutale, un gioco perverso che toglie umanità laddove seguito alla lettera e ne conferisce invece disobbedendovi, che lascia lo spettatore con una orribile sensazione di impotenza.

Stateless

Yvonne Strahovski in stato di grazia

Per quanto l’intera serie sia ben recitata, una menzione speciale va sicuramente a Yvonne Strahovski, attrice australiana già vista in molteplici produzione americane, tra le quali The Handmaid’s Tale. La Strahovski compie infatti un immenso lavoro di immedesimazione per restituirci il personaggio di Sofie Werner, una donna dilaniata dal desiderio di essere libera dalle costrizioni sociali, così disperata da affidarsi a una setta e da vagare con una falsa identità, nella malata speranza di essere deportata in un paese straniero per ricominciare a vivere.

Parzialmente ispirata dalle vicende di Cornelia Rau, la storia di Sofie è costellata di emozioni e stati d’animo che spesso cozzano tra loro nel giro di poche scene. Tra i meriti della Strahovski, quindi, non c’è solo quello di aver portato in vita un personaggio così complesso, ma anche quello di averle infuso dignità e realismo nella rappresentazione del suo disagio e della sua malattia mentale.

Binge-watching? No, grazie

L’unico difetto imputabile a questa serie, se di difetto si può parlare, è che non si presta al binge-watching. In chiaro contrasto con la politica di Netflix, dove difatti Stateless è solo ospitata trattandosi di una produzione per il network australiano NBC, si tratta di un prodotto che va processato, non divorato. L’ottima sceneggiatura fa sì che la tensione cresca di pari passo con la sensazione di oppressione e con la crudezza, lasciando lo spettatore con sì la curiosità di saperne di più, ma anche con la volontà di fare una pausa per comprendere al meglio quanto appena visto.

Ben scritta, ben girata e ben recitata, con Stateless Cate Blanchett ha insomma messo a segno un colpo da maestro. Una denuncia non urlata ma affermata con fermezza e rispetto, con un obiettivo ben definito: non giudicare, ma sensibilizzare di fronte a situazioni di ingiustizia e violenza, con protagonisti uomini e donne come noi. Di quale etnia o nazionalità, non ha importanza.

Martina Ghiringhelli
Nasco in un soleggiato mercoledì a Milano, in contemporanea col trentesimo compleanno di Cristina D’Avena. Coincidenza? Io non credo: le sue canzoni sono un must nella mia macchina, e non è raro vedermi agli incroci mentre canto a squarciagola. Altri fatti random su di me: sono laureata in cinema, sono giornalista pubblicista, ho dei gusti musicali che si prendono tragicamente a pugni tra loro, adoro la cultura giapponese, Mean Girls è il mio credo e soffro ancora di sindrome da stress post-traumatico dopo il finale di Game of Thrones.