Avrai i miei occhi, nuovo romanzo di Nicoletta Vallorani, ci presenta una Milano del futuro frammentata e multietnica in cui i Barbablù si moltiplicano e il dolore delle donne diventa il dolore dell’umanità.

Leggere Avrai i miei occhi, nuovo romanzo di Nicoletta Vallorani pubblicato dalla casa editrice modenese Zona 42, è un atto di amore: amore nei confronti della fantascienza – genere spesso bistrattato, incompreso, considerato inferiore -, amore nei confronti della buona letteratura – che esiste al di là degli incasellamenti editoriali -, amore nei confronti di quel cinquanta per cento della popolazione mondiale che è considerata dall’altra metà una quota rosa.

Avrai i miei occhi è un romanzo del futuro che, come tutta la buona fantascienza, porta all’occhio del lettore temi caldi del presente: Milano, frammentata da un’infinità di muri, riflette gli efferati femminicidi di cloni, corpi, cose, direbbe qualcuno, smembrati e abbandonati nella neve, sull’asfalto, pianti solo da loro simili, geneticamente programmate per commemorare morti ignote.

avrai miei occhi

La scrittura della Vallorani si arrampica sulla struttura della storia come un tralcio d’edera rigogliosa: ogni frase, ogni parola e ogni pensiero di Olivia, attraverso il cui sguardo seguiamo le vicende del detective Nigredo con una seconda persona singolare che non è solo esercizio stilistico, ma chiave di lettura, fa affondare il lettore in questa rivisitazione post-cyberpunk della fiaba di Barbablù.

Avrai i miei occhi e La camera di sangue: due punti di vista

Barbablù nasce con riproduzione vegetativa da Charles Perrault alla fine del milleseicento con lo scopo – come la Pandora greca – di ammonire le donne contro un’eccessiva curiosità. Nella fiaba, alla giovane protagonista, novella sposa del sei volte vedovo ricco barbuto, viene affidato il mazzo di chiavi del suo nuovo nido d’amore, con il divieto di usarne una soltanto. Ciò che si nasconde dietro quella porta, scoprirà la ragazza, sono i cadaveri delle mogli venute prima di lei, sospese da terra sopra il loro stesso sangue.

Possiamo anche fingere che Perrault volesse venderci questa storia come un avvertimento sul ficcare il naso dove non si dovrebbe, e così è stata proposta per secoli, ma con la sensibilità di oggi è impossibile non puntare i riflettori su una tendenza maschile rimasta invariata dal diciassettesimo secolo al ventunesimo: la pretesa di possesso dell’uomo sulla donna che le appartiene.

avrai miei occhi

I corpi di Avrai i miei occhi, scomposti e ricomposti nelle fotografie tra le mani di Nigredo, sono tanti cadaveri, tante ragazze, tanti pezzi, un corpo, cloni di una stessa cavia regina imprigionata ancora cosciente nella stanza di Barbablù. Tanti pezzi, tante cose, ognuna marchiata con la runa del possesso, ognuna usata da centinaia di carnefici per il proprio piacere, e poi buttata via.

Nella rivisitazione forse più famosa della fiaba di Barbablù, La camera di sangue di Angela Carter, che dà il titolo all’omonima raccolta del 1979 recentemente ripubblicata da Fazi in Nell’antro dell’alchimista, è la protagonista stessa a sentirsi frammentata quando si vede riflessa negli specchi della camera: «Guarda», disse lui indicando con la mano tutte quelle ragazze raffinate, «me ne sono procurato un intero harem!». Nella versione della Carter, la runa del possesso è la macchia di sangue che resta sulla chiave della stanza degli orrori, spia della disubbidienza della sposina, che si trasferisce sulla sua fronte quando il marito la preme sulla sua pelle, prima dell’esecuzione, marchio del potere maschile di decidere della vita e della morte della cosa che gli appartiene.

Ciò che succede non è fantascienza, tantomeno una fiaba

Se questo è quello che succede nel futuro distopico di Nicoletta Vallorani e nel passato fiabesco di Angela Carter, quello che accade nel nostro presente è che nei quarantacinque giorni che sono passati dall’inizio dell’anno, 13 donne sono state uccise perché non volevano essere la cosa di qualcuno. Il femminicidio, neologismo attestato dalla Treccani, è l’uccisione diretta o provocata, eliminazione fisica o annientamento morale della donna e del suo ruolo sociale. E non stupisce che ci siano ancora eminenti quotidiani italiani che confondono omicidio e femminicidio, se pensiamo che il delitto d’onore è stato abrogato, nel nostro paese, meno di quarant’anni fa. Fino al 1981 mancare di rispetto a un uomo poteva significare la morte, ma checché ne dica la legge, anche nel 2020 il pericolo non è azzerato.

Ma chi sono, i Barbablù del nostro presente? Come il mostro perraultiano, gli uomini che uccidono le donne possono essere fascinosi, galanti, innamorati. Così innamorati che spesso vengono dipinti dalla cronaca come folli d’amore, accecati dalla gelosia, pronti a pentirsi del loro gesto di troppo amore al punto da uccidersi essi stessi sopra il corpo dell’amata, come a  proteggerla.

Così come l’autore de I racconti di Mamma Oca ha provato a venderci Barbablù come una fiaba sui pericoli della curiosità femminile, anche il fenomeno del femminicidio viene spesso trasformato come per magia in una serie numerosa di episodi di troppo amore. La moglie di Barbablù non avrebbe dovuto aprire quella porta, le mogli dei Barbablù non avrebbero dovuto rifiutare tutto quell’amore.

Empatia

In Avrai i miei occhi i Barbablù ci sono ma non si vedono. Senza lasciarsi affascinare dall’impianto distopico classico che vede un gruppo di eroi contro il Nemico, Nicoletta Vallorani ci mostra un male capillare, un sistema, quello dei corpi usati per un piacere sessuale non consensuale, così infiltrato nella società, così tollerato ai piani alti che Nigredo e Olivia sembrano due sgualciti Don Chisciotte e Sancho Panza a bordo di un taxi che fa le veci di Ronzinante, alle prese con muri e ostruzionismo, anziché mulini a vento.

Quei corpi, quelle cavie, quelle donne buone ormai solo come carburante per la Fabbrica delle ceneri, troveranno il loro riscatto nell‘empatia, nella condivisione del dolore, troveranno la loro pace grazie a una loro sorella in grado di liberarle dalla sofferenza provando il loro stesso dolore. L’ultima moglie di Barbablù apre le porte della stanza segreta, rende libere le donne che sono state prima di lei, promette a sé stessa e a ogni donna che non succederà più. Questo è accaduto nel passato e succederà nel futuro. Perché non farlo accadere anche nel presente?

Angela Bernardoni
Toscana emigrata a Torino, impara l'uso della locuzione "solo più" e si diploma in storytelling, realizzando il suo antico sogno di diventare una freelancer come il pifferaio di Hamelin. Si trova a suo agio ovunque ci sia qualcosa da leggere o da scrivere, o un cane da accarezzare. Amante dei dinosauri, divoratrice di mondi immaginari, resta in attesa dello sbarco su Marte, anche se ha paura di volare. Al momento vive a Parma, dove si lamenta del prosciutto troppo dolce e del pane troppo salato.