Wandavision e The Mandalorian sembrano aprire la strada produzioni seriali basate quasi esclusivamente sull’intertestualità

[Attenzione, questo articolo parla liberamente della trama e dei colpi di scena di Wandavision e The Mandalorian.] Volevo scrivere questo articolo già tempo fa, dopo aver finito la seconda stagione di The Mandalorian su Disney+. Ma è solo dopo il finale della prima serie del MCU, Wandavision, che mi son deciso a parlare di una caratteristica di queste produzioni che mi sta lasciando sempre più perplesso: l’intertestualità.

Di base l’intertestualità è caratteristica intrinseca in un prodotto testuale. Negli studi letterali, si indica come tale la capacità di un testo di ricollegarsi ad altri, direttamente o indirettamente, in maniera esplicita o meno. Questo può avvenire tramite l’uso della citazione, dell’omaggio, del plagio, della parodia o della prosecuzione di un percorso narrativo. Un paio di esempi possono essere il Kafka sulla spiaggia di Murakami, che si ricollega in modo intertestuale ovviamente al lavoro dello scrittore Franz Kafka, o in generale il sequel di un’opera cinematografica, come Terminator 2 che si ricollega al primo Terminator.
Il cinema di Tarantino è per esempio un continuo rimando intertestuale alla tradizione italiana dello spaghetti western o del cinema d’arti marziali di Hong Kong. Anche i suoi stessi film si ricollegano tra loro attraverso piccoli dettagli che li dimensionano in un unico mondo narrativo pulp.
L’intertestualità non è quindi di base né un pregio né un difetto, è semplicemente una caratteristica di quasi qualsiasi tipo di narrazione.

Nel corso dell’ultimo decennio cinematografico però, l’intertestualità ha cominciato a prendere piede in maniera decisamente più invadente. Film basati su franchise multi miliardi fanno, all’interno dei loro racconti, un continuo rimando intertestuale ad altre opere: principalmente film usciti precedentemente o fumetti. La Marvel per esempio, ha costruito un vero e proprio impero cinematografico basandosi sul continuo collegamento referenziale tra testi dello stesso universo, tanto che per uno spettatore medio è diventato quasi impossibile vedere un nuovo film del MCU senza aver recuperato prima il resto. È incredibile però notare lo stesso come Avengers Endgame, opera che è preceduta formalmente da ben 22 film, sia diventata la pellicola con più alti incassi della storia, anche se è improbabile che uno spettatore nuovo alla saga possa essere in grado di capirci qualcosa.

Nel corso del Novecento i produttori cinematografici non erano inclini alla produzione di sequel, perché le possibilità di successo di quest’ultimi erano legate alla presenza in sala del pubblico che aveva apprezzato il primo capitolo. È solo poi con Star Wars e la nascita del blockbuster alla fine degli anni ’70 che si è imposta la confidenza necessaria nell’industria per mettere in piedi delle saghe, spesso accompagnate da un’aggressiva campagna marketing legata anche al merchandising. Tutto l’impero Disney si basa, non a caso, sullo stabilire nuovi franchise con lo scopo unico di creare delle basi per prodotti intertestuali e intermediali, come giocattoli, parchi divertimento e adesso anche serie tv con The Mandalorian o Wandavision.

La Marvel ha dimostrato che è possibile capitalizzare enormemente anche con la produzione di un blockbuster da un lato estremamente popolare, ma dall’altro profondamente elitario poiché richiede al suo pubblico di seguire un filone di film che va avanti ormai da più di un decennio. Marvel e Disney hanno creato un pubblico fidelizzato in grado di far incassare miliardi su miliardi, e che adesso si è trasferito anche su piccolo schermo.

Il futuro delle serie Disney+

Pur non essendo per niente un fan di Star Wars, ho genuinamente apprezzato la prima stagione di The Mandalorian. Il motivo è presto detto: non mi trovavo davanti a una serie che dipendeva in ogni singola parte dalla saga di riferimento, ma piuttosto ne condivideva semplicemente il mondo narrativo. La prima stagione di The Mandalorian può essere vista tranquillamente anche da uno spettatore nuovo a Star Wars, visto che si tratta più che altro di una storia di pistoleri nello spazio. Siamo più vicini a Cowboy Bepop e Firefly, che al Ritorno dello Jedi, e questa cosa me l’ha fatta apprezzare molto.

La seconda stagione è invece molto diversa, poiché fa un forte uso di un’ipertestualità che non serve a costruire meglio la propria narrazione o continuarne alcune iniziate in precedenza, ma anzi punta tutto sul cosiddetto fan service, che altro non è che un superficiale modo di fare riferimenti intertestuali. A una persona come me, vedere su schermo personaggi come Bo-Katan Kryze e Ahsoka Tano, ha detto poco o nulla, poiché non conosco la loro storia al di fuori del testo di riferimento. In questo modo la seconda stagione di The Mandalorian fa affidamento, anche nel suo climax finale, su personaggi a cui il pubblico si è affezionato altrove, da un’altra parte. Ecco perché a me, per esempio, la comparsa di Luke Skywalker non ha veicolato nessuna emozione, pur conoscendo ovviamente il passato del personaggio.

Pensate addirittura poi a una persona che Star Wars non l’ha neanche visto: che cosa può trarre da quella scena così carica a livello formale, eppure vuota dal punto di vista emotivo se non si è consci di tutte le implicazioni intertestuali che quel personaggio comporta?

All’epoca però mi sono fermato, e non ho scritto un pezzo a riguardo. Mi son detto che non sono un vero fan della saga, e che quindi non posso capire. D’altronde The Mandalorian è un prodotto fatto appositamente per chi Star Wars lo conosce come le proprie tasche, e quindi non posso giudicare appropriatamente.
Ma della Marvel invece sono un vero e proprio fanatico: ho il poster di Endgame appeso in camera, Infinity War è uno dei miei film preferiti e in generale avrò visto tutta la saga non so quante volte. Ed è quindi con profondo rammarico che dico che anche Wandavision, a mio parere, ha un problema con l’intertestualità.

Ora, non è assolutamente mia intenzione fare un’analisi generale della serie o parlare della trama nella sua totalità, ma semplicemente analizzarne il lato intertestuale portando come tesi solo alcune specifiche scene. In primis il “colpo di scena” più grosso della serie: la presenza di Evan Peters nei panni di Quicksilver. Alla fine della quinta puntata infatti, Wanda riceve la visita del fratello Pietro, morto in Avengers Age of Ultron, ma interpretato non dallo stesso attore ma da quello che ne ricopre i panni nell’universo X-Men creato dalla Fox, ora acquistata dalla Disney. Quando è apparso il volto di Peters ho gridato dalla gioia, pensando a tutte le possibili implicazioni su un eventuale esistenza di un multiverso e di un’unione con il canone cinematografico degli X-Men.

Ovviamente, dopo aver finito la stagione, si scopre che non c’è nessun secondo fine più ampio, e Wanda (insieme anche al pubblico) è stata in realtà ingannata dal villain della serie, Agatha Harkness. Quindi la presenza di Evan Peters è solo un’enorme coincidenza? Ovviamente no, la Marvel voleva scherzare col proprio pubblico e rivelare il trucco poche settimane più tardi. Molto divertente, ma qual è il fine ultimo all’interno dell’economia del racconto? In che modo Wandavision trae vantaggio da questa sostanziosa deviazione? E soprattutto, chi non ha visto anche tutti i film degli X-Men… cosa può trarne da questo colpo di scena? In questo modo l’ipertestualità si trasforma in puro e semplice fan service e diventa la parte predominante della serie, e la narrazione e l’evoluzione dei temi vengono beatamente sacrificati.

La seconda scena che vorrei prendere in esamine è la “nascita” di una nuova eroina: Monica Rambeau che diventa Photon. Il modo in cui la serie racconta la sua evoluzione sembra essere quasi abbozzato e appiccicato sopra perché semplicemente necessario. Anche se avessi saputo chi fosse Photon (perché no, proprio non lo sapevo), il modo in cui mi viene presentato il personaggio non è organico e naturale, ma anzi viene dato quasi per “scontato” da parte della produzione: “questa è Photon, nasce così e ha questi poteri”. Tutto questo viene riconfermato in una delle due scene dopo i titoli di coda dell’ultima puntata, dove vediamo Monica Rambeau essere reclutata per andare nello spazio, anticipando quindi il secondo film di Captain Marvel.

E va bene così, la Marvel l’ha già fatto in passato: prendersi qualche scena per anticipare lavori futuri. Ma in Wandavision la presenza di questo personaggio si somma a quella di Quicksilver come semplice aggiunta accessoria ai fini del racconto. In questo caso non per fare un enorme battuta metatestuale, ma per gettare le basi per il proprio prossimo film.

La terza ultima scena riguarda il finale della settima puntata, dove Agatha Harkness ci rivela che Wanda è… Scarlet Witch. La scena carica tutto il suo pathos su queste ultime parole, che dovrebbero arrivare come una sorta di sorpresa esplosiva, ma che invece anche in questo caso sono un semplice fan service. Ci sono infatti due tipi di pubblici che possono ricevere questa scena: chi sapeva già che era Scarlet Witch e chi non. Ai primi la notizia non può essere un colpo di scena, perché lo sappiamo da anni che Wanda è la strega del caos, anche se nei film non è mai stata chiamata come tale. Ai secondi invece, le parole di Agatha non significano niente: “Scarlet Witch? E chi è? Mi dovrebbe importare che si chiama così?”.

Wandavision infatti non anticipa in nessun modo all’interno del proprio testo la riscoperta di Wanda in Scarlet Witch. Non fa nessuno sforzo a livello narrativo per caricare di tensione quello che sulla carta dovrebbe essere un grosso colpo di scena. Wandavision fa come The Mandalorian con Luke Skywalker, ovvero dà per scontato che il proprio pubblico conosca quello che sta guardando e per questo non abbia bisogno di costruire degli archi evolutivi di spessore da accompagnare alla rivelazione. Se sappiamo già tutti che Wanda è Scarlet Witch e che Monica Rambeau è Photon, che senso ha prendersi la briga di introdurre i climax in modo efficiente?

wandavision

L’ipertestualità predominante all’interno di un racconto, non è però per forza deleteria o fine a sé stessa. Come in Stranger Things ad esempio, Wandavision lega il suo costante citazionismo, in questo caso alle sitcom americane da Vita da strega a Modern Family, allo sviluppo dei propri personaggi. Nella penultima puntata infatti, si scopre che Wanda passava il tempo da bambina a guardare le videocassette delle sitcom che il padre portava da lavoro. La commedia americana permette alla protagonista di eliminare il trauma, elaborando il suo lutto per Visione proprio attraverso gli show televisivi della sua infanzia. L’intertestualità è legata quindi a doppio filo proprio con il tema dell’intera opera, elaborato anche in modo molto originale se consideriamo che stiamo guardando una serie di supereroi.

In conclusione, l’intertestualità non è il male assoluto da cui fuggire, in alcuni casi può essere un vero e proprio motore alle tematiche del racconto. Quando è invece sconnesso da quest’ultime, e applicate per ragioni che vanno al di fuori del testo (marketing, fan service, preannuncio di lavori futuri), allora l’intertestualità diventa una fastidiosa zavorra in grado di lasciare parte del pubblico esclusa, e l’altra parte sì contenta, ma solo per un breve momento d’estasi. Serie come The Mandalorian e Wandavision sembrano però aver fatto una vera e propria dichiarazione d’intenti per quanto riguarda le produzioni Disney+. Si tratteranno di serie per i fan, carichi di citazione da scovare ad ogni puntata. Prodotti che sembrano vivere nel chiacchiericcio collettivo che nasce ad ogni fine episodio, per poi scomparire alla prossima novità. Francamente penso che sia un futuro triste per il franchise, specialmente Marvel. Questo perché nei film del MCU, nonostante l’onnipresente scena necessaria ad anticipare il film successivo, l’intertestualità non è mai stata in grado di rovinare una narrazione, appesantendola di contenuti che esulano dall’obiettivo del testo stesso.

Anche se purtroppo non sarà così, si spera che in futuro le grosse case produttrici inizino a produrre opere in grado di essere assimilate per quello che sono, invece di dover conoscere a priori tutti i fatti di tutte le opere facenti parte dello stesso franchise. Ma dopo che Endgame si è dimostrato essere il più grosso successo al box-office della storia, e dopo che è stato predetto che Disney+ supererà Netflix nel giro di un paio d’anni, perché mai dovrebbero prendersi il rischio?

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