Noi: cronaca di un fallimento annunciato, tra autarchia, esterofilia, e coprofilia

noi this is us

egli anni ‘30 del secolo scorso, la corrente futurista si impegnò – spinta dalla corsa autarchica del nascente governo fascista – a ribattezzare con parole italiane quei concetti espressi con parole straniere. Sono gli anni in cui nei quisibeve (bar) si sorseggiano polibibite (cocktail), con processi morfologici che non sfigurerebbero nell’undicesima edizione del dizionario di neolingua orwelliano.
Sebbene sia passato quasi un secolo da questo (fortunatamente) fallimentare tentativo di arricchire la lingua italiana impoverendola di sfumature, ci troviamo ancora oggi a osservare, sulla rete nazionale, fallaci tentativi di italianizzazione di prodotti nati in un’altra lingua, in un’altra cultura, con goffi risultati che non apportano niente di nuovo nel panorama dell’intrattenimento se non un diffuso imbarazzo.

Noi, la versione italiana della serie statunitense This Is Us – creata da Dan Fogelman e colpevole di aver riacceso in noi millennials l’imperituro amore per Milo Ventimiglia – si è appena conclusa con il dodicesimo episodio della prima stagione su Rai Uno e, tutto sommato, avremmo preferito le ennesime repliche di Don Matteo a questa scopiazzatura. A discolpa dei vertici Rai, possiamo dire che l’Italia non è stato il primo paese a pensare che potesse essere una buona idea, in un contesto in cui a serie originale è facilmente accessibile su diverse piattaforme (la trovate sul canale Fox di Sky, ma anche su Prime Video), farne una versione casalinga: nel 2019 sono state prodotte una versione turca – Bir Aile Hikayesi – e una olandese – Dit zijn wij – della serie, mentre l’anno scorso è arrivata in tv in Francia e Belgio Je te promets. Insomma, non riusciamo a essere originali neanche nelle idee non originali. Tutte queste versioni fatte in casa non hanno superato lo scoglio della prima stagione, mentre This Is Us veleggia, tra un salto dello squalo e l’altro, verso la sua sesta, conclusiva, stagione.

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Se della serie in sé c’è poco da dire (ma cosa vi devo dire io di una serie che adatta il cognome Pearson come Peirò), con prove attoriali su cui spicca giusto giusto Lino Guanciale – che impallidisce comunque rispetto alla complessità emotiva presentata da Ventimiglia nel ruolo di Jack – e un copione e una regia che si limitano a ricalcare l’originale, resta però da chiedersi quanto poco possa essere stimolante l’ambiente in casa Rai se siamo arrivati alle fiction predigerite (viva la m*rda, chioserebbe il maestro Ferretti).

Certo, l’Italia ha sempre sofferto di una certa sudditanza culturale nei confronti dei paesi anglofoni, e una strategia messa in atto per fruire di quella cultura avvicinandola al belpaese è sempre stata l’italianizzazione dei contenuti.
Prima della globalizzazione, per esempio, poteva succedere che in Italia Caterina Caselli cantasse di essere bugiarda mentre negli States Neil Diamond fosse un believer, o che la Stand by me di Ben E. King diventasse Pregherò nelle parole di Adriano Celentano, ma – appunto – negli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso, pur avendo superato il pensiero autarchico, il mercato musicale era formato da nicchie geografiche ben specifiche e a meno di non avere la fortuna di uno zio del Minnesota a cui rubare i dischi, si finiva per ascoltare quello che passava il convento, ovvero le radio e le televisioni italiane.

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Quello che è cambiato, negli ultimi sessant’anni, è la facilità con cui è possibile fruire di contenuti prodotti nel resto del mondo, un’innovazione che sembra rendere obsoleta la nazionalizzazione di format esteri, soprattutto se si tratta dell’importazione di storie già arrivate nella loro dimensione originale grazie al doppiaggio. L’apertura del mercato, ovviamente, ha anche dato un nuovo spazio all’esterofilia, e a livello generazionale abbiamo finito per snobbare in toto gran parte della produzione letteraria, musicale, cinematografica italiana, in favore di ciò che andava di moda tra le nostre coetanee e i nostri coetanei oltreoceano. Complici le nuove forme di fruizione e l’immediatezza dell’internet, dai millennials in poi Mamma Rai ha perso l’appoggio delle sue figlie e dei suoi figli, che si riuniscono davanti alla tv una volta all’anno per guardare più o meno ironicamente Sanremo per poi abbandonare la tv in balìa dei nonni. In un circolo ben poco virtuoso, insomma, le persone giovani non guardano le fiction Rai (salvo rari exploit di interesse per serie dall’appeal particolare – come L’amica geniale) e la Rai non ci prova neanche, ad attirare un pubblico under 50.

Lo stesso This Is Us, che affronta nel corso delle sue stagioni il tema dell’appartenenza culturale del personaggio di Randall (Davide nella versione italiana), nella versione italiana diventa una storiella edulcorata per palati abituati a storie già masticate, che non emoziona, non graffia, ma si limita a far passare due ore a chi si trova davanti allo schermo, che potrebbe guardare indifferentemente Noi o un episodio del Maestro Rocco e non si porrebbe comunque nessuna domanda. This Is Us, una serie che racconta una grande storia d’amore, è diventata la classica serie italiana in cui tutte urlano addosso a tutti; la serie che ho conosciuto, e amato, è stata trasformata in qualcosa che potrebbe piacere a mia nonna, sacrificando la complessità in favore della pigrizia, della storia già scritta a cui ci si limita a sottrarre gli elementi che il pubblico italiano non capirebbe.

E, credetemi, lo capisco. Capisco di essere il target di This Is Us e non di Noi, capisco che non ci sarebbe neanche bisogno di spendere così tante parole per una fiction, capisco che riempire un intero palinsesto sia complicato e che probabilmente tra gli sceneggiatori di casa Rai c’è stanchezza (non saprei come altro spiegarmi il recente episodio di Don Matteo ispirato a Il giorno della marmotta – vedi sopra), perciò prima di scrivere questo articolo ho telefonato a mia nonna, che è la perfetta buyer persona di Rai Uno, e le ho chiesto se le fosse piaciuto Noi. Ecco, care amiche e cari amici della Rai, se mi state leggendo, mia nonna ha detto no.
Salvateci dallo strazio di una seconda stagione e passate alle repliche di Montalbano, per favore.

Angela Bernardoni
Toscana emigrata a Torino, impara l'uso della locuzione "solo più" e si diploma in storytelling, realizzando il suo antico sogno di diventare una freelancer come il pifferaio di Hamelin. Si trova a suo agio ovunque ci sia qualcosa da leggere o da scrivere, o un cane da accarezzare. Amante dei dinosauri, divoratrice di mondi immaginari, resta in attesa dello sbarco su Marte, anche se ha paura di volare. Al momento vive a Parma, dove si lamenta del prosciutto troppo dolce e del pane troppo salato.