La malattia sulle pagine degli albi Marvel: quando i supereroi diventano umani

rimo tra i supereroi del Marvel Cinematic Universe, il Thor di Chris Hemsworth si prepara a fare il suo ritorno al cinema per un quarto capitolo dove, a giocare un ruolo particolare, dovrebbe essere il tema della malattia. Infatti, oltre al figlio di Odino, farà il suo ritorno Jane Foster e, con lei, verrà portato sullo schermo un ospite sgradito: il suo cancro. Una storia che risale a quasi dieci anni fa, quando Jason Aaron parlò del tumore al seno che stava uccidendo la storica compagna del dio del tuono. Non uno scenario ignoto ai lettori, quello di vedere una figura vicina all’eroe consumarsi per una malattia. Ma, ben presto, le cose cambiarono, quando a fine 2014 lo stesso Aaron trasformò Jane nella nuova dea del tuono. Questa volta era uno dei supereroi a fare i conti con la malattia.

Non era uno scenario del tutto ignoto: la Marvel aveva già provato a mostrare alcuni dei suoi eroi affetti da malattie debilitanti. Il caso più celebre riguardava Captain Marvel, ma successivamente, in modi diversi, furono presentati diversi tentativi di mostrare il mondo dei supereroi entrare in contatto con la malattia. Ma i precedenti restarono comunque pochi. Può apparire sorprendente, ma uno dei maggiori tabù contenuti all’interno dei fumetti di supereroi è quello della malattia. Al contrario dell’insanità mentale, sempre presente nella vita dell’eroe, è raro assistere al confronto tra un eroe e un male incurabile.

Ancor più coraggiosa diventa dunque la scelta del MCU di rappresentare un campo inesplorato, di cui è difficile discutere. Figuriamoci per un tipo di intrattenimento di massa come quello dei cinecomic. Ma prima di avventurarsi in questo viaggio oscuro è bene chiedersi: perché i mondi dei supereroi e quelli della malattia si incontrano così raramente? Forse perché non serve essere superveloci, non basta avere la vista calorifica e il senso di ragno. Quando la malattia arriva, anche i supereroi Marvel devono arrendersi. Perché martelli magici e magia asgardiana non bastano per vincere questo nemico. Serve qualcosa di diverso.

Non si parla di malattie

Pare strano porsi questa domanda all’indomani di una pandemia che ha costretto molti di noi a riscrivere i nostri canoni di vita. Ma esiste qualcosa di più umano della malattia?
Tra noi esseri umani è comune dire che quando una morte avviene per un virus o per una patologia, siano state “cause naturali” a portare a questo esito. Diventa dunque lecito chiedersi perché qualcosa di così normale non abbia posto anche nel fumetto. Le spiegazioni, in realtà, sono molteplici. La più banale è che in un fumetto di supereroi non sia possibile inserire qualcosa di troppo umano. In fondo i super nascono per esorcizzare ciò che esiste di sbagliato nella nostra umanità e il fatto di morire ci sembra essere uno di questi sbagli. Ma il vero motivo, forse, ci è stato spiegato da un altro genere di fumetto, l’italianissimo Dylan Dog.

Parliamo del celebre numero 280, Mater Morbi, al cui interno l’Old Boy esprime in maniera chiara e concisa il rapporto tra l’essere umano e la malattia. Nessuno desidera essere malato. Anche nel migliore dei casi, quando è solo un fastidio, essa risulta invalidante e ci decurta di parte delle nostre abilità fisiche. Rende la nostra mente prigioniera di un corpo che non può darle il sostegno che meriterebbe. È, insomma, qualcosa da rifuggire, da nascondere. Ben diversa dalla morte, che in fondo può essere oggetto di desiderio, o della stessa follia, ultimo rifugio per chi ha subito troppi colpi bassi dalla vita, come ci ha narrato il Bardo in The Killing Joke. Come può qualcosa che, nella visione della società, ci rende “meno umani” adattarsi ai super-umani?

Eppure questo non ha fermato alcuni autori dal tentativo di parlare della questione. In un modo o nell’altro, ci sono stati anche supereroi costretti a convivere con la malattia, a dover accettare la propria mortalità e la fragilità del corpo.

Umano, troppo umano

Nel 1941 l’allora Timely Comics propose la storia di un ragazzo di Brooklyn, un giovane di nome Steve, desideroso di arruolarsi nell’esercito per servire la patria contro i fascismi. Il giovane tuttavia era mingherlino e cagionevole di salute, quello che nell’esercito dello zio Sam viene definito un 4-F, non idoneo al servizio militare. Steve Rogers era troppo malato per servire il suo paese, ma l’incontro con Abraham Erskine e il suo siero del supersoldato trasformò quel debole ragazzo in Captain America. Conosciamo e amiamo tutti questo racconto. Eppure in questa storia, atto fondante del Marvel Universe, era presente anche un’altra protagonista, destinata a scomparire quando Steve si unì alle file dei supereroi: la malattia.

La futura Marvel scelse di esorcizzare una debolezza umana con la nascita di un superuomo. Captain America non è solo l’antitesi del fascismo, la più grande paura dell’americano medio negli anni Quaranta. Ma è anche la negazione di quegli aspetti che rendono l’umanità sgradevole. Coraggioso e onesto laddove troppe persone sono vili e bugiarde; bello e forte, così come tanti sono brutti e deboli. Cap è uno dei primi esempi di superumano destinato a rinnegare qualsiasi tratto renda l’uomo imperfetto. Il tema della malattia è dunque presente sin dall’inizio nei fumetti di supereroi. Ma resta latente, qualcosa da lasciare sullo sfondo, di cui non si può parlare apertamente. Solo la sua negazione, la sua cura e, attraverso di essa, il raggiungimento di uno stadio superiore dell’umanità, può trovare spazio nelle pagine del fumetto della Golden e Silver Age.

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La necessità di curare una malattia tornerà anche nelle origini di Iron Man e Doctor Strange. In entrambi i casi è una patologia a spingerli a diventare eroi. Tony Stark deve convivere con dei frammenti di granata nel petto, costruendo l’armatura Mark I come supporto vitale. Stephen cerca invece una cura per le proprie mani menomate, trovandone invece una per la propria anima. Ma la malattia sfiora soltanto le vite degli eroi. Non li tocca direttamente o in maniera tale da essere una presenza cronica. Un’eccezione potrebbe essere Hulk. Sin dalla nascita del suo alter-ego il dottor Banner ha trattato l’esistenza del Gigante di Giada come qualcosa da combattere clinicamente. Le prime storie dell’Incredibile Hulk si basano spesso sulla ricerca di metodi per tenere sotto controllo il mostro. Certo, la sua patologia è più psicologica che fisica, ma senza ombra di dubbio presenta una cronicità.

Diversamente capita spesso che gli eroi debbano vedere persone a loro care affrontare una malattia. Un esempio comune è presente in Spider-Man, che deve spesso far coesistere i suoi doveri di eroe e l’assistenza a zia May, alla quale in anni recenti è stato anche diagnosticato un tumore. Ma anche in questi casi è raro che si assista al lato più cupo della malattia. Quello del deperimento e dell’inabilità.

Vita e morte di Captain Marvel

Perché l’argomento venga trattato in maniera diretta i lettori della Casa delle Idee dovettero aspettare il 1982, quando Jim Starlin realizzò Morte di Captain Marvel. Mar-Vell era uno degli eroi più potenti e popolari di Terra-616. Guerriero kree disertore, aveva giurato di proteggere l’umanità dalle ingerenze del suo popolo e degli eterni rivali skrull. Con i Vendicatori aveva respinto l’invasione dei due imperi alieni e tenuto a bada Thanos. Nel corso degli anni aveva anche ricoperto il ruolo di eroe sulla Terra, scontrandosi con Nitro, criminale conosciuto per aver causato l’incidente di Stamford. Il villain, in una delle sue scorribande, aveva rubato una bombola di gas nervino, ma era stato fermato in tempo da Marvel il quale era tuttavia stato esposto alla sostanza che, dopo qualche anno,gli fece sviluppare un tumore.

Starlin operò in maniera superba. Nel suo fumetto riuscì a ottenere una crasi tra le avventure spaziali di Mar-Vell e un evento terreno come la malattia. Assistiamo al percorso dell’eroe verso la sua fine. I primi sintomi, la diagnosi, il tragico momento in cui il male viene rivelato alle persone amate. Ed è qui che Starlin ottenne l’apice della sua opera. Captain Marvel rivela il proprio tumore a una serie di persone a lui vicine. Il primo a conoscerlo è Mentore, che lo aveva accolto su Titano. Viene poi la volta di Elysius, la donna da lui amata. Infine Rick Jones, compagno di molte avventure sul pianeta Terra. Ognuno di loro reagisce in maniera diversa alla notizia. Rabbia, disperazione, persino rifiuto nel caso di Rick, che taglierà i ponti con “Marv” fino all’approssimarsi della sua morte.

Ma Starlin non si limitò a questo. Mostrò anche il lato peggiore della malattia: il declino fisico. La lenta e inesorabile consapevolezza che la vita di Captain Marvel si sarebbe spenta. Tra le scene più commuoventi di questo graphic novel troviamo l’arrivo degli eroi terrestri al capezzale di Mar-Vell. Il guerriero è ormai nella fase terminale della malattia. Smunto e pallido, il kree che aveva solcato il cosmo si trova relegato a letto, con una cannula per l’ossigeno. I Vendicatori, gli X-Men, i Fantastici Quattro e alcuni eroi solitari giungono da lui per salutarlo negli ultimi attimi di vita. Ed è proprio uno di loro, il nostro amichevole Uomo Ragno, a esprimere al meglio la sensazione dei lettori. “Captain Marvel è uno di noi. È un supereroe a tutti gli effetti. Noi moriamo per colpa di pallottole e bombe… non per qualcosa come il cancro. Non è possibile”.

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Una battaglia umana

La morte di Marvel riprodusse molto di ciò che la malattia comportava. Tranne una cosa, impossibile da condensare in un albo di un centinaio di pagine: la lotta contro la malattia. Il supereroe, a causa della sua fisiologia kree, non poteva essere guarito e non poteva affrontare terapie che ne ritardassero la morte. Non è così per Jane Foster. Nel 2013 Jason Aaron rivelò che la storica compagna di Thor era afflitta da un tumore al seno.

La malattia iniziò ben presto a consumare Jane. La splendida donna con i capelli castani, che aveva sciolto il cuore del dio del tuono, si presentò a lui smagrita e malferma, calva per via della chemioterapia. Nonostante Thor e l’intera Asgard si offrissero di curarla tramite la magia, Jane rifiutò. Essendo stata in passato sia infermiera che medico non è suo desiderio avvantaggiarsi rispetto a tanti altri pazienti che ha avuto in cura per la stessa malattia. Sceglie, consapevolmente, di affrontare quella stessa battaglia che ognuno di loro ha affrontato nel corso degli anni. Accettare una cura miracolosa sarebbe una mancanza di rispetto verso quanti hanno dovuto confrontarsi con lo stesso nemico. Sarebbe barare.

La lotta per la malattia, il desiderio di lottare ad armi pari, ha tuttavia un effetto imprevisto. Jane diventa “degna”, ottiene cioè il compito di impugnare il martello Mjolnir. Il maglio la chiama sulla Zona Blu della Luna, il luogo dove era stato abbandonato dal suo precedente proprietario. La donna solleva l’arma e diventa così la nuova Thor. Aaron arriva qui a mescolare due diversi livelli narrativi. Quello immediato, dove affrontare il male ha reso Jane la nuova portatrice di Mjollnir. E quello lasciato sullo sfondo, quello che ci dice che è proprio la sua lotta, così umana, a renderla ‘degna’.

Diventa quindi chiaro perché per i supereroi di casa Marvel la malattia sia un nemico così terribile. Perché quella contro l’infermità è una battaglia umana. Jane diventa sì una divinità, ma proprio la sua ascesa al rango divino e la magia asgardiana di cui è impregnato Mjolnir cancellano da lei ogni traccia della chemio, rendendo così più veloce la sua dipartita. Eppure lei non può fare a meno di continuare a impugnare il maglio divino. Un po’ per la sensazione provata mentre è una divinità, un po’ perché “deve sempre esserci Thor” per fronteggiare le minacce contro la Terra. Un circolo vizioso che, per un paradosso, diventa virtuoso nel momento in cui il martello riconosce l’importanza di questo sacrificio.

L’eroismo di Jane non si consuma quindi nella semplice lotta contro giganti del ghiaccio e villain mascherati. Esso sta nell’affrontare quanto di più orribile possa concepire l’essere umano. Qualcosa che distrugge la dignità stessa dell’esistenza e che porta, prima del tempo, alla triste conclusione di tutte le esistenze. Ma proprio questa lotta, destinata alla sconfitta, rende Jane degna. Rende Jane una supereroina, ancor prima di impugnare un martello.

Federico Galdi
Genovese, classe 1988. Laureato in Scienze Storiche, Archivistiche e Librarie, Federico dedica la maggior parte del suo tempo a leggere cose che vanno dal fantastico estremo all'intellettuale frustrato. Autore di quattro romanzi scritti mentre cercava di diventare docente di storia, al momento è il primo nella lista di quelli da mettere al muro quando arriverà la rivoluzione letteraria e il fantasy verrà (giustamente) bandito.