Che cosa rende il videogioco un caso di studio importante per la narratologia? A questa e altre domande vuole rispondere il numero 49 di Hamelin

La centralità di chi gioca come agente diretto del proseguire di una storia, che cambia a seconda delle scelte e delle azioni che sceglie di compiere, è l’unità di senso più unica e  distintiva del videogioco. Quell’elemento che ne determina le peculiarità, che lo rende un linguaggio a sé stante con una grammatica propria. Un valore narrativo inedito che soltanto in questo medium può realizzarsi e che, in sessant’anni di storia, lo ha portato da fenomeno di costume isolato e di nicchia a mezzo con una consapevolezza sempre più sfaccettata e complessa. Hamelin, associazione culturale che dal 1996 si occupa di collegare il raccontare con l’educazione, attraverso l’omonima rivista ha chiamato a raccolta diverse personalità collegate allo studio accademico, alla realizzazione e alla divulgazione del videogioco per poterne raccontare le implicazioni narrative possibili: siano esse interne o esterne, scaturite dal videogioco o da chi lo gioca.

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Nelle centosettanta pagine circa della rivista, quindi, vengono raccolti nove tra saggi e interviste, a cui fanno da corredo un fumetto – uno dei tanti mondi narrativi che Hamelin esplora da sempre, anche grazie alla curatela della mostra di settore Bilbolbul – e una lista di giochi suggeriti per favorire tanto la presa di coscienza sui valori educativi del videogioco quanto per iniziare un percorso pedagogico responsabile ed etico attraverso lo stesso.

Un volume che quindi vuole essere uno strumento sia per chi è già addentro al mezzo, dando la possibilità di ampliare e approfondire i percorsi di senso già avviati, ma anche per chi nutre scetticismo riguardo questo linguaggio ma vuole comprenderne gli spazi narrativi che offre ragionando su un uso che possa essere funzionale e di supporto all’imparare. Abbandonando scenari e pregiudizi suggeriti dall’opinione pubblica ma concentrandosi puramente sul testo e sulle sue caratteristiche.

Parlando proprio di superamento degli stereotipi connessi al videogioco, non mancano infatti riferimenti alla questione sociale che questo medium coinvolge. Nel primo saggio proposto, Matteo Gaspari ci accompagna a esplorare i motivi per cui come esseri umani siamo portati a (video)giocare, rivisitando percorsi tracciati da grandi teorici del gioco come Johan Huizinga. Nel testo Gaspari individua che il videogioco racchiude i tre bisogni alla base della vita di una persona: la libertà, la competenza e la socialità.

Questo perché proprio grazie alla possibilità data a chi gioca di intervenire in modo diretto nella narrazione ci è data la possibilità di agire in modo libero, perché a seconda del livello di sfida acquisiamo una determinata competenza e perché ci interfacciamo continuamente con società mentre giochiamo (virtuali, come i villaggi di un gioco single player, o popolate da altre persone come i giochi online e i luoghi di discussione). Un modo quindi per suggerire che c’è di più del tanto osteggiato e criticato isolamento ma che, al contrario, i videogiochi a livello strettamente linguistico riescano a rispondere a domande che sono il traino della nostra esistenza.

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Citato da Gaspari tra gli esempi di mondi possibili  c’è The Witcher 3 che, attraverso la sua fitta rete di socialità e politica, interviene sul bisogno sociale di chi gioca

Ma se la teoria e il poter rispondere a dei bisogni intrinsechi è un concetto che più o meno unanimemente viene accettato, le implicazioni che il videogioco porta nel reale dei suddetti fanno però fatica a prendersi i loro spazi, specialmente in contesti più deliberatamente educativi. Nella rivista, infatti, non mancano momenti in cui viene analizzata la percezione che si ha del videogioco (intervista a Marta Palvarini e al gruppo di game scholars Ippolita), il valore della violenza nel medium (Tilo Hartman), che ruolo ha il tempo nell’uso dei videogiochi (Francesco Toniolo) e come questo linguaggio possa essere la base per formare modalità hacker di apprendimento (Karlessi).

In questi saggi e in queste interviste viene sviscerato tutto quello che potrebbe risultare potenzialmente critico nel videogioco, che a occhi esterni può essere considerato pericoloso e deleterio per la crescita e l’apprendimento. A discapito di quanto possa sembrare, i toni qui non sono della difesa cieca e assoluta ma anzi della creazione di contesti e di possibilità culturali a cui riferirsi. Quelle che solitamente vengono poste come criticità e aspetti principalmente negativi del videogioco vengono posizionate in spazi che invece ne rendono comprensibile il significato, dando i necessari appigli per poterne trarre le dovute conclusioni e poterli applicare nell’educazione.

Poter spiegare che per imparare davvero con il videogioco è necessario il contesto realizzativo e tecnologico, ragionare su come le loot boxes e lo streaming comunicano il tempo a chi videogioca, oppure cercare di capire perché l’opinione pubblica si accanisce con il videogioco per via di come viene gestita e intesa la violenza, è un’opportunità. Un’occasione che in Hamelin diventa vera e propria linfa vitale che scorre in ciascuna delle pagine, insistendo sui perché di queste tendenze e di questi modi.

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Nel saggio di Karlessi, Prince Of Persia viene posto come esempio di game design che porta chi gioca a imparare adattandosi

Non mancano nel numero 49 di Hamelin anche discussioni approfondite sui temi che il videogioco affronta narrativamente, e sulle modalità con cui tratta questi. Nei saggi di Andrea Dresseno, Marta Palvarini, Lorenzo Ghetti e nell’intervista a Florent Maurin (game designer a capo del gioco Bury Me, My Love) si discute di come il medium affronti le tematiche più disparate e le trasformi in storie da cui, chi gioca, può trarne delle specifiche conseguenze.

I luoghi di un walking simulator (termine che Dresseno, autore del saggio, ripudia in favore di un meno svilente giochi d’avventura) per esempio possono essere il fulcro di un racconto, lo spazio all’interno del quale sviluppare le narrazioni rendendole ambientali in modo totale. O ancora è possibile tracciare un’evoluzione della rappresentazione di genere nel videogioco, come e perché in passato si è sbagliato e dove invece si è potuto creare un contesto di persone possibili approfondito e coerente con il reale e in che modo il codice narrativo del videogioco vada modificato in questa direzione.

Oppure si può parlare ai più piccoli del male, dell’oscurità, del cedere a quell’oscurità che è la crescita attraverso esempi (estremi e volontariamente poeticizzati) come LimboInsideLittle Nightmares. Infine si può ragionare sul valore che il videogioco può avere nel raccontare la tragedia di chi sceglie di cercare un posto migliore per sé emigrando dal proprio paese, raccontando aspetti inediti di quelle storie che forse possono risvegliare le coscienze.

Insomma, in questa parte del numero di Hamelin, viene posto il problema del racconto delle evoluzioni della nostra società e di come il videogioco possa favorirne la messa in scena. Tornando sempre sul focus dell’agentitività attiva che questo medium offre, si aprono prospettive di senso e di racconto che altrove sarebbe complicato mettere in pratica, sottolineando ancora una volta come il linguaggio proprio del videogioco sia fondamentale per apprendere, insegnare, capire.

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Raccontando la storia di Nour attraverso uno strumento di uso quotidiano, Bury Me My Love vuole porre la questione migratorie di fronte a chi non riesce a comprenderla a fondo; proponendo contesti in cui creare ragionamenti

Per concludere, questo numero di Hamelin, sia nel suo contenuto principale e in quello di corredo (che coinvolge Jesse Jacobs, fumettista che ultimamente si è approcciato al videogioco curando la direzione artistica di Spinch) vuole enfatizzare e porre i dovuti accenti sul come l’interattività di questo mezzo sia una porta narrativa inedita e il punto di forza più evidente del medium anche in contesti educativi. Una pubblicazione utilissima per chiunque voglia approfondire questo aspetto peculiare della cosiddetta decima arte. 

Luca Parri
Nato a Torino, nel 1991, Luca studia scienze della comunicazione come conseguenza della sua ossessione nei confronti delle possibilità che offrono i mezzi di comunicazione e ha lavorato come grafico e consulente marketing (lavoro che ha fatto crescere esponenzialmente la sua ossessivo-compulsività per le cose simmetriche e precise). Lo studio gli ha permesso di concretizzare la sua passione per i differenti linguaggi dei media, sperimentando con mano l'analisi linguistica e semiotica; il lavoro gli ha dato la possibilità di provare a inserire la teoria nel pratico. Studio e lavoro, insieme, lo hanno portato a scrivere di, tra gli altri argomenti, grafica pubblicitaria, marketing, comunicazione e comunicazione visiva collegata al videogioco.