Al cinema arriva Aladdin, da Agrabah con furore (passando per Brooklyn e Bollywood)

Dopo tanta (?) attesa, anche Aladdin è arrivato in sala. Di nuovo. Live action del classico del cinema d’animazione del 1992 diretto da Ron Clements e John Musker, il film sarà distribuito in Italia a partire dal 22 maggio.

Il principe-straccione di Agrabah, la bella (e non solo) Jasmine, il Genio Blu e il malvagio Gran Visir Jafar sono i protagonisti di uno dei cartoni animati di maggior successo della Disney, tra i capisaldi del rilancio dei primi anni Novanta – un periodo d’oro che ha infilato, uno dopo l’altro, capolavori del genere come La Bella e la Bestia, La Sirenetta, Il re leone e Mulan. Non a caso tutti già riproposti come live action o in lavorazione.

Aladdin del 2019 segue l’esempio de La bella e la bestia del 2017, che ha visto l’ex Hermione Granger Emma Watson indossare i panni romantici e tenaci di Belle. Come è accaduto per il film di Bill Condon, anche Aladdin gode, nel passaggio dall’animazione in 2D al film con attori in carne e ossa, di un’operazione di re-styling. Ma tutto quello che è nuovo, fresco e attuale è da considerarsi “migliore”?

Aladdin: Guy Ritchie e Will Smith sbarcano in casa Disney

Gli elementi che rendono interessante questa operazione – in effetti – si contano sulle dita di una mano, ma giustificano comunque una visione disimpegnata del film. Per primo, la regia di Guy Ritchie, uno dei registi più apprezzati del cinema di genere, con un’evidente propensione all’uso del rallenty nelle scene d’azione. Per quel che può, considerando che in questo frangente si confronta con un progetto piuttosto blindato, Ritchie porta il suo bagaglio estetico anche in quelle Notti d’Oriente che negli anni Novanta conquistarono i bambini di tutto il mondo.

aladdin disney

Un altro elemento di novità che merita la visione è il passaggio di testimone – delicatissimo – rappresentato dal personaggio del Genio. Nella versione originale, infatti, la voce del potente spirito magico era stata prestata da niente di meno che Robin Williams che (soprattutto negli anni Novanta, ma anche negli anni a seguire…e per sempre) è stato un po’ il Santo Patrono del Cinema per ragazzi.

La sua fine, così inaspettata e – per certi versi – sconvolgente, ha lasciato un vuoto che timidamente qualcuno sta provando a colmare, senza però essere arrivato mai ad occupare il simbolo che Williams ha inevitabilmente svuotato. Will Smith, il gigione principe di Bel Air (ma che ha dimostrato ampiamente di poter sostenere prove attoriali di diverso calibro), prende in carico questa responsabilità e dà volto, corpo e voce al Genio di Guy Ritchie.

Il risultato è assolutamente convincente, sopratutto perché poggia sul carisma e sulla simpatia dell’attore americano. Non c’è alcun tentativo di imitazione ed è un paradosso, dato che la caratteristica del film è proprio quella di riprodurre scene, dialoghi e personaggi in maniera in tutto e per tutto fedele all’originale. Eppure, Will Smith riesce a conquistare il ruolo e ad adattarlo alle sue corde, rendendo l’effetto straniante del passaggio da una personalità a un’altra piuttosto trascurabile. Dopo poche scene è facile voler bene al nuovo Genio, esattamente come al primo. Oltretutto, al Genio di Will Smith è concessa anche una linea narrativa inedita, che colloca la sua aspirazione alla libertà in una dimensione prettamente umana. 

Jasmine, nuova eroina del femminismo in salsa Disney

Bene ma non benissimo, invece, la svolta femminista data al personaggio della principessa Jasmine. Sicuramente è da apprezzare l’intenzione degli sceneggiatori (oltre a Ritchie, John August), di rendere più autonoma e consapevole una delle tante figure femminili “invecchiate” nel tempo, non tanto – ovviamente – per aspetto fisico, quanto per ciò che rappresentava e rappresenta.

La Jasmine del 1992 era sicuramente una principessa dal carattere deciso e dall’astuzia degna di ammirazione, ma la sua funzione nella storia era quasi unicamente quella di far innamorare Aladdin e diventare l’obiettivo dei suoi desideri. Chiaramente, passati 27 anni, una figura femminile del genere sarebbe risultata decisamente limitante: così la Jasmine interpretata dall’inglese Naomi Scott (Power Rangers, Terra Nova) ruba la scena al co-protagonista maschile Aladdin (Mena Massoud).

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La nuova principessa è un’orgogliosa paladina dei diritti delle donne in una società fortemente patriarcale; stufa di dover aspettare il matrimonio per essere considerata un’adulta, esasperata da chi la considera solo una bella ragazza, umiliata dalle continue ammonizioni che la invitano al silenzio, Jasmine troverà il modo di far sentire la propria voce e di cambiare, una volta per tutte, le castranti regole della società di Agrabah.

Il problema, se vogliamo, è proprio qui: la voce. Per raccontare il nuovo personaggio, infatti, gli sceneggiatori le hanno ritagliato due spazi musicali che non reggono il confronto con la colonna sonora ormai arcinota scritta da Alan Menken. Sebbene l’autore sia lo stesso, infatti, i sipari musicali di Jasmine stonano decisamente col contesto, diventando stranianti e didascalici. In sintesi: intenzione, ottima. Esecuzione, meno. 

La colonna sonora di Aladdin: Disney does it better

Altro punto di forza del film, ma che non costituisce una novità rispetto all’originale,  è proprio la colonna sonora e i numeri da musical annessi. Sorprende piacevolmente la padronanza di Ritchie con il genere, che ci regala un adattamento davvero spettacolare dei classici numeri musicali disneyani. Particolarmente riuscito l’ingresso trionfale ad Agrabah di Aladdin – Principe Alì, ma anche la scena-madre in cui i due protagonisti si corteggiano sul tappeto volante cantando Il mondo è mio. Una nota: lo spettatore che conosce l’originale si accorgerà che tutti i testi delle canzoni sono stati riscritti. L’effetto non è dei più piacevoli, e sicuramente non è aiutato nel passaggio alla lingua italiana, ma le varie accuse di islamofobia scaturite dal classico del 1992 hanno reso necessario un intervento di politically correction

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Aladdin: un bilancio finale del live action Disney

In generale, l’Aladdin di Guy Ritchie è un prodotto piacevole, non all’altezza dell’originale, ma decisamente più aggiornato nei temi e nello stile. Difficile scrollarsi di dosso la patina di banalità con cui è affrontata l’estetica orientale, con la sua aura genericamente esotica, che a volte sa di Casbah, a volte (tante) di Bollywood. Il regista di Snatch e Sherlock Holmes mette la sua firma spaccona in alcuni – riconoscibili – punti, senza esagerare, ben consapevole dell’enorme macchina produttiva e dell’ancor più grande eredità culturale che si è trovato alle spalle. Una bella sorpresa per gli amanti delle sit-com: l’attrice iraniana Nasim Pedrad, nota al pubblico per essere stata la compagna di Winston in New Girl: qui interpreta l’ancella Dalia – un personaggio inedito, scritto appunto per il live action. Meno interessante, invece, la resa proprio del protagonista e del villain. In entrambi i casi la recitazione è di maniera, sfacciatamente cartoonesca: la resa kitsch degli abiti e della scenografia non aiutano a smussare l’effetto-Lucca Comics nell’ora di punta. 

In un epoca di reboot, e di rivisitazione circolare delle stesse storie e degli stessi personaggi, Aladdin non si distingue per originalità, ma conquista una sua dignità per esecuzione. Sarà difficile, specialmente per i più grandi, non cedere al paragone con il cartone animato, ma – abbandonata ogni nostalgia – si potrà godere di un’esperienza leggera e divertente. Privilegiati sono i bambini, a cui il film strizza l’occhio (specialmente grazie al contributo della scimmia Abu e del pappagallo Jago) che – ipersollecitati da prodotti visivamente ben più complessi dei cartoni animati in 2D – avranno di che divertirsi.

 

Francesca Torre
Storica dell'arte, giornalista e appassionata di film e fumetti. Si forma come critica tra Bari, Bologna, Parigi e Roma e - soprattutto - al cinema, dove cerca di passare quanto più tempo possibile. Grande sostenitrice della cultura pop, segue con interesse ogni forma d'arte, nella speranza di individuare nuovi capolavori.