Gossip Girl incontra Jane Austen: nasce così Bridgerton, tra sessualità, femminilità e dovere

Ci sono autori, showrunner, che racimolano negli anni un successo tale da diventare capisaldi non solo della serialità, ma veri e propri detentori di un impero, molto spesso, narrativo; universi fatti di personaggi e racconti ricollegabili immediatamente alla visione dei loro ideatori, che del loro nome e stile ne fanno marchio distintivo.

È il caso ad esempio, rimanendo nell’ambito della serialità televisiva o digitale, di Ryan Murphy, il cui tocco o la sola presenza anche dietro le quinte di un’operazione audiovisiva basta per venir etichettata come nuova epopea glitterata e volutamente camp che segna la maniera in cui ha saputo distinguersi negli anni il noto produttore, sceneggiatore e regista.

Tra questi, il caso di Shonda Rhimes diventa ancora più emblematico, progetti e racconti seriali racchiusi sotto il logo della sua ShondaLand, che non si fa soltanto casa di produzione della creatrice di una serie televisiva imprescindibile, per quanto tanto o meno apprezzata, come Grey’s Anatomy, ma riferimento per un’industria e, soprattutto, per un pubblico che ritrova nell’imprenditrice americana la paladina a cui rivolgersi, con cui confrontarsi, congratularsi o, all’occasione, arrabbiarsi.

Eventualità che si presentano a ogni prodotto sormontato dalla cappa di notorietà della Rhimes, che va offuscando sistematicamente l’apporto di qualsiasi altro componente, compreso il reale creatore della suddetta serie. È quello che è avvenuto nel primo caso di co-produzione tra la ShondaLand della sceneggiatrice e il colosso dello streaming Netflix, segnati dalla collaborazione per la serie d’epoca georgiana dal gusto sensatamente kitsch Bridgerton.

Chi è il vero ideatore di Bridgerton?

Ideatore dell’operazione in costume è, infatti, il difficilmente nominato Chris Van Dusen, che negli anni ha condiviso con Shonda Rhimes trascorsi lavorativi su progetti quali Private Practice, Scandal e lo stesso Grey’s Anatomy.

Ma sono i toni di Bridgerton a stupire per l’aderenza con il mondo soprasseduto dalla firma della Rhimes che porta inevitabilmente ad orientare ogni cosa; la quale definisce un determinato gusto, un modo di narrazione e di temi trattati, cercando nel romance la spinta sempre prima con cui condurre i personaggi, e affidandosi alla stabilità e alla coerenza di maniere di rappresentazione che la sceneggiatrice e produttrice ha introdotto nel corso della sua carriera.

È il dramma piccante ad aprire la stagione dei balli nella dimensione d’epoca di Bridgerton, la purezza e il candore delle debuttanti dell’alta società intaccate dai pettegolezzi e dalla penna sferzante della misteriosa Lady Whistledown, che non può certo entrare nelle camere da letto dei membri della società britannica, ma può ipotizzarne amori e indicibili scandali.

Un Gossip Girl d’altri tempi, un’idea non certo originale, ma che diventa funzionale nell’esaltazione degli intrighi che animano e riverberano nei corridoi e nei giardini di una comunità attenta all’etichetta e al rispetto delle apparenze, dove l’approvazione della regina si unisce ai sotterfugi e alle insidie che si consumano silenti tra le lenzuola, per aggiungere pepe nell’interazione ossequiosa tra i vari pretendenti.

L’Ottocento tra apparenze, dovere e sensualità

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Le ambientazioni alla Jane Austen, la sontuosità degli arredi e delle stoffe agghindate ad abbigliamento, trovano un’ibridazione prima di tutto con i modelli di racconto dell’universo delle serie televisive della dimensione di ShondaLand, ampliata dalla collaborazione con l’imponente Netflix che va cercando tra i due un accordo tra storia e argomenti da affrontare, mostrando tutta la canonicità del pubblico della Rhimes, mischiata però al tentativo di avanzamento nel trattamento e nell’esposizione su di una piattaforma come quella digitale.

Ciò che va, dunque, agglomerandosi nel mezzo è proprio l’incontro tra una visione reazionaria che si lega sia alle convenzioni del tempo, sia al tipo di spettatore a cui è rivolta questo tipo di fantasia, insieme all’incentivo di estendere la basicità dello storytelling, cercando spunto in tematiche e questioni inerenti alla sfera dell’attuale.

L’ostentata modernità di Bridgerton ha quindi il sapore della prova e il risultato della mancata riuscita, una versione seriale di un romanzo Harmony presentato però al massimo della sua potenza, che cerca realmente lo sconfinamento in un territorio che possa essere tanto impertinente, quanto riflessivo sulla condizione, ad esempio, della femminilità ottocentesca, ma con un intento che viene sistematicamente privato di qualsiasi approfondimento in virtù di quel porto spettatoriale e delle sue aspettative a cui la serie deve sottostare.

È proprio la pretesa femminista a risentire perciò enormemente di una narrazione che cerca di svincolare continuamente la donna dal controllo e dal “dovere” dell’uomo, dando l’impressione di riuscirci timidamente, ma venendo immediatamente relegata nella gabbia dorata della morigeratezza, del riserbo e di una vita matrimoniale seppur rispettabile, quanto meno contraddittoria.

Bridgerton come guilty pleasure di fine 2020

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Una difficoltà incentivata, oltre che dal suo pubblico, da un’erotizzazione che sembra rivoluzionaria e intraprendente, ma che in verità – oltre a non mostrare praticamente mai alcun nudo, il che la dice lunga sulla riflessione della messinscena – è ben lontana dai trattamenti di cui si è avvalsa la serialità televisiva soprattutto negli ultimi anni, mostrando un’apertura che alla storia stessa non è intrinsecamente permessa e che finisce per ritornare sulla “retta via” della volontà ottocentesca di far ricoprire alla donna solamente il ruolo di dama, moglie e madre.

La problematizzazione del ruolo della figura femminile rimane subordinata alle vicende irrinunciabili del racconto, dove è l’amore a dover trionfare e la possibilità di condividere un ducato regna al di sopra di qualsiasi opportunità di autodeterminazione. Una presa del controllo limitata, ma che è comunque un passo, leggero e pur sempre inefficace, che Bridgerton cerca di avanzare nella serialità mainstream, dovendo rinunciarvi pur cercando di dare spessore e spirito critico alle sue protagoniste, costrette però ad attenersi alle attese e ai desideri anacronistici oggi, ma inerenti al tempo della loro narrazione.

Bridgerton perciò non può che ricoprire il lasso di intrattenimento di un guilty pleasure che ha un’ottima presa fin dalle sue prime puntate, lasciandosi sormontare dal sentimentalismo della sua parte finale e dall’ingenuità di molte delle sue trovate, partendo per le proprie fondamenta dalla serie di romanzi scritti da Julia Quinn e venendo narrata dalla voce fuori campo di Julie Andrews.

Una superficialità stagnante che permette una presa moderata, fonte di gradimento proprio per la sua dubbia natura fiabesca, dove si può sorvolare anche sulla modestia espressiva e sulle scarse qualità recitative dei suoi interpreti, traendo da quella spensieratezza spiccatamente frivola, su cui è però il caso di saper discernere bene.