Con l’arrivo di Stadia, la favola del videogiocatore diventa realtà in streaming

Voglio essere sincero con voi lettori: quando l’anno scorso teorizzavo un futuro di gioco in streaming, non pensavo che l’arrivo di questa tecnologia sarebbe stato così repentino. Sarà per questione di abitudine, oppure il fatto che nelle questioni digitali il nostro paese ha sempre mostrato il fianco a numerose critiche.

Nonostante ciò, tra circa due settimane Google Stadia sarà disponibile anche in Italia e la sua attesa è stata per me una delle più difficili da sopportare, seconda solo a Death Stranding. Presumo che la motivazione sia semplice: una volta assaggiato il futuro è difficile tornare indietro.

Sin dal suo annuncio ufficiale, Google Stadia ha generato centinaia di discussioni, tanto positive quanto negative, ma su una cosa possiamo concordare tutti: il suo arrivo ha avuto delle conseguenze per tutta l’industria con scosse poderose. Più o meno in contemporanea con la sua presentazione al mondo durante la GDC del 2019, per esempio, Sony ha ampliato la rosa dei paesi di PlayStation Now, Italia inclusa, lavorando inoltre per garantire ai suoi utenti un catalogo sempre più aggiornato con titoli d’impatto come GTA V e Persona 5, disponibili anche su PC.

Nel mentre, Microsoft ha lavorato per espandere il suo X Cloud ed esteso la disponibilità di Gamepass anche ai giocatori della Master Race, sfruttando la guerra dei launcher tuttora in corso e mostrando che non sono solo i giochi a fare la differenza, ma i servizi.

Gli stessi servizi che Electronic Arts fornisce ad esempio con EA Access: il servizio sbarca infatti anche su PlayStation dopo circa due anni di attività su Xbox e PC e porta con sé una nuova sottoscrizione denominata EA Access Premier, che offre oltre al catalogo dei giochi l’accesso diretto al day one di tutti i giochi del publisher canadese.

Allo stesso modo, anche Ubisoft non ha perso tempo annunciando Uplay +, ovvero una replica dell’offerta EA ma alla francese. Il futuro del videogioco più stuzzicante resta comunque quello di Google: una console invisibile, basata su server dalla potenza di calcolo non raggiungibile nemmeno dai PC all’avanguardia e su un cloud frutto di ricerche e testing approfonditi, capace di far girare titoli al massimo delle prestazioni e garantendo agli sviluppatori una piattaforma senza alcun limite hardware. Il tutto raggiungibile all’interno del vostro browser oppure con un Chromecast.

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Una rivoluzione, però, porta anche tanti dubbi. Uno di questi è sicuramente la trasformazione del mercato in termini di vendite fisiche: negli ultimi mesi abbiamo assistito a diverse dimostrazioni del fenomeno, per esempio quando Sony ha annunciato lo storico sorpasso del digitale nei confronti del fisico, così come il periodo di forte difficoltà di Gamestop, arrivata a varare un vero e proprio reboot commerciale cercando di sopravvivere almeno fino al lancio delle nuove console.

Personalmente credo che, al di là dello streaming, il fisico godrà ancora di qualche anno di successo, trainato soprattutto da una fetta di mercato che ancora è affezionata al possesso del disco e della confezione, e questo lo sanno anche Sony e Microsoft che hanno già confermato la presenza di un lettore ottico sulle macchine di prossima generazione. Questo non vuol dire che, magari, non possa esserci spazio per una versione di PS5 o Scarlett sprovvista di unità BluRay, cosa che permetterebbe anche di risparmiare non poco su console che presumibilmente non potranno avere un prezzo di vendita inferiore ai 500 euro in virtù della componentistica che dovrebbero montare.

Tema molto simile a quello del fisico, è invece quello del possesso vero e proprio: Stadia, di fatto, sarà una sorta di console virtuale dove potremo giocare ad una vasta gamma di titoli, i quali tuttavia andranno acquistati così come accade attualmente.

Cosa vuol dire questo per il consumatore? Nulla di nuovo, verrebbe da dire. Anzi, è ormai da anni che il consumatore non è più proprietario dei giochi che acquista, bensì detiene solamente una licenza d’uso del software limitata tra l’altro dal detentore dei diritti del gioco. Tuttavia, l’idea di spendere dei soldi per qualcosa di altamente volatile impensierisce di default, e ammetto che io stesso sono dovuto scendere a patti con questa idea prima di effettuare il preordine della mia Founder’s Edition di Stadia. Tuttavia abituarsi alo streaming è possibile, come ha dimostrato l’industria televisiva e cinematografica. C’è poi una risposta a questo annoso quesito e l’ho esposta poco sopra: i servizi.

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Rispetto a tanti altri mercati, infatti, quello del videogioco è quello più pacifico e inclusivo di tutti. Al netto di console war e affini, infatti, l’unico interesse di qualunque publisher è di vedere il proprio gioco che vende, a prescindere dalla piattaforma usata per giocarci, streaming o non streaming. Il già citato caso del Game Pass è emblematico per chiarire questa idea, soprattutto prendendo in esame il successo di Gears 5: il titolo sviluppato da The Coalition è infatti stato un successo di critica grazie ad una serie di passi avanti capaci di svecchiare la serie, ma è anche stato apprezzato da una vasta fetta di pubblico grazie alla sua diffusione su Game Pass: al prezzo di appena dieci euro, giocatori Xbox e PC hanno potuto giocare al titolo in un numero decisamente superiore rispetto al passato, a dimostrazione che questo modello di distribuzione può essere eccezionalmente valido.

Un’altra potenziale critica potrebbe invece essere relativa ai costi di gestione: esattamente come accade nel mondo dello streaming, infatti, il rischio di far sostenere ai consumatori dei costi eccessivi per l’utilizzo di piattaforme multiple potrebbe sembrare elevato. Tuttavia la situazione videoludicamente parlando sembra molto più sostenibile, anzi, potrebbe portare ad un’inversione di tendenza molto conveniente.

Fermandoci anche solo a Google, l’abbonamento di Stadia costa 9,99€ al mese, al quale possiamo sommare per onestà intellettuale un controller (prendiamo quello PS4 da 70 euro) e un Chromecast ultra per giocare sulla TV in 4K (79€), più un abbonamento, magari quello di EA che potrebbe essere il più plausibile in terra italica causa FIFA (14,99€ al mese).

Anche con un investimento iniziale attorno ai 170 euro, la spesa risulta inferiore rispetto all’acquisto di una console (una Switch Lite di listino costa 220 euro) e ancor più inferiore rispetto ad una build PC che, per consentire prestazioni dignitose, non può essere acquistata ad un prezzo inferiore di circa 7-800 euro. Anche a voler calcolare un anno intero, optando in questo caso ad un Access Premier che costa 99 euro, la spesa totale sarebbe di circa 430 euro o 35 euro mensili.

Ancor più interessante è l’iniziativa di Microsoft con il suo Xbox All Access, ovvero un abbonamento che al suo interno include una Xbox a scelta tra One S All-Digital, One S e One X ed un abbonamento Game Pass Ultimate (comprensivo di Xbox Live). Nel caso più costoso si può arrivare a 30 dollari mensili, con un contratto di 24 mesi che però prevede anche un upgrade a Scarlett, nel momento in cui sarà disponibile.

Servizi, dicevamo: il futuro di tutto l’entertainment insieme allo streaming e che, in ambito videoludico, potrebbero rivoluzionare il nostro modo di giocare, ovunque e con centinaia di giochi a disposizione senza spendere cifre esorbitanti. Un cambiamento radicale per il videogioco, paragonabile all’evoluzione dei formati che hanno attraversato la storia stessa del medium, dalle cartucce ai CD fino a pacchetti digitali. Chiudo con un azzardo o, se preferite, un desiderio: tutti i publisher che si impegnano a rendere disponibili qualunque gioco disponibile su qualunque piattaforma.

E i videogiocatori vissero tutti felici e contenti.

Francesco Paternesi
Pur essendo del 1988, Francesco non ha ricordi della sua vita prima del ’94, anno in cui gli regalarono un NES: da quel giorno i videogiochi sono stati quasi la sua linfa vitale e, crescendo con loro, li vede come il fratello maggiore che non ha mai avuto. Quando non gioca suona il basso elettrico oppure sbraita nel traffico di Roma. Occasionalmente svolge anche quello che le persone a lui non affini chiamano “un lavoro vero”.